di Graziella Lavanga

Siamo qui, certo pieni di guai, ma siamo arrivati vivi, sani e lucidi al 2022. Te lo avevamo promesso, Vasco!
Oggi è la vigilia del grande giorno, sono in treno e ad ogni stazione sale qualcuno con la maglietta dei tour passati. La chat dei fan si accende, arrivano le foto di chi parte. Da tutta Italia, verso Trento e oggi non è il giorno del concerto, oggi è il sound check, riservato a soli 15mila di noi. I concerti di Vasco iniziano il giorno prima e non finiscono neanche il giorno dopo, è proprio così.

Arrivati a Trento la città accoglie freddamente i fan, ma i trentini si ricrederanno da lì a poche ore. Si aspettavano un’ondata di centoventimila barbari, sono arrivati centoventimila sorrisi. Appena il tempo di posare gli zaini in albergo e poi si parte, verso la music arena. Tutti percorrono a piedi la lunghissima strada che dal centro porta a Mattarello, sotto al sole cocente. La rifaranno altre tre volte: per tornare a dormire dopo il sound check e ancora avanti e indietro il giorno del concerto. Non sembra vero, siamo ancora qua!

Inizia il sound check, Vasco è carico e molto emozionato: “Finalmente, finalmente” dice. E lo ripete due, tre, quattro, cinque volte. Finalmente Vasco, sei tornato. Così vicina non sono stata mai in più di venti anni di concerti, è un’emozione rotta solo in parte dal muro di cellulari che ho davanti a me, ma che ci vuoi fare? È l’epoca dei social!

C’è qualcosa che rende Vasco unico. Vasco “tira fuori”: tira fuori le emozioni, le debolezze, le paure, le fragilità che hanno tutti, ma che per pudore o per senso di auto protezione spesso rimangono latenti. Vasco ha questo dono, sblocca l’emozione ed è una cosa che non si impara. In due ore e mezza di concerto Vasco fa vivere tutte le emozioni possibili, non ha paura di mostrarsi fragile e trascina con sè il suo pubblico, ognuno perso nel personale ricordo che la canzone riporta alla mente. Ricordo scene al Modena park di uomini grandi e grossi, canottiera e tatuaggi, piangere come bambini. Succede sempre, ecco perché Vasco è Vasco.

Il sound check è solo l’antipasto. Venerdì 20 maggio Trento si sveglia lenta, ma poi un fiume di gente la attraversa incessantemente. Per tutto il giorno migliaia di persone percorrono la stessa, infinita strada che chi ha fatto il sound check già conosce. Così Trento si anima, i bar alzano la musica, la gente balla, canta, si abbraccia e i trentini scoprono che non devono avere paura di questo evento. Una signora di 84 anni si avvicina e dice: “Trento così non l’avevo mai vista. Grazie”. Ma siamo noi che ringraziamo i trentini che alla fine ci hanno accolti con amore. “L’amore sopra la paura”, aveva detto Vasco a Modena. Vale anche a Trento!

Nel frattempo la music arena si riempie, sempre di più, sempre di più. L’afflusso sembra non avere fine. Alle 21, ora di inizio del concerto, non sono ancora arrivati tutti, così la show inizierà in ritardo, lo annuncia Diego Spagnoli dal palco. È la prima volta che succede. Poi le luci si accendono, Vasco arriva con un boato liberatorio. Ed è bellissimo. È bellissimo stare qui con persone di ogni età, ogni estrazione sociale, ogni titolo di studio, ogni regione. È bellissimo stare qui dopo quasi tre anni di silenzio.

All’improvviso partono i ricordi. Non sai mai quale canzone ti farà scorrere nella mente la tua vita, tutta. Succede da sé e non puoi farci niente. Questa volta mi accade con Stupendo, ma c’è qualcosa di strano: i ricordi si fermano, si intoppano, arrivano solo fino a due anni fa. Ai tempi in cui eravamo sdraiati sul divano e la vita improvvisamente si è sospesa per tutti. E poi il messaggio di questo concerto “noi siamo contro ogni guerra. Fuck the war”. Già perché dopo la pandemia è arrivata anche la guerra in Europa.

Ma ora veniamo all’organizzazione. Il concerto è cominciato, come dicevo, in ritardo per permettere a tutti di arrivare. L’afflusso è stato costante, ordinato, festoso. C’è chi ha varcato il cancello alle 8,30 e ha atteso con pazienza affrontando un caldo anomalo. Il deflusso, invece, mi è parso disastroso. Nessuno si aspettava di lasciare l’area in pochi minuti, ovvio, ma già al sound check era evidente che le vie di fuga fossero insufficienti, mal sistemate e mal indicate. Nulla a che vedere con Modena. Ma oltre tutto le 120mila persone hanno dovuto lasciare l’arena attraverso una strada stretta, ostruita per di più dalle auto della polizia e da un cumulo di sabbia lasciato lì senza motivo. Un imbuto, un imbuto intasato. È stato solo grazie alla civiltà dimostrata dai fan che tutto si è svolto senza incidenti, questo bisogna dirlo. Un muro di persone immobili di cui non si vedeva la fine hanno aspettato pazientemente. Nessuno ha spinto e nessuno si è neanche innervosito. Hanno tutti compreso che bisognava mantenere la calma.

Sui giornali si legge che qualcuno ha scavalcato le paratie, invadendo i binari e che i venditori di bibite fossero appena dietro l’imbuto, rallentando ulteriormente il deflusso. Credo, essendoci stata, che chi ha la responsabilità di non aver previsto questa situazione, già evidente al sound check, quando si è creata ressa nello stesso punto, ma con centomila persone in meno, dovrà rispondere di quanto è accaduto e di quanto sarebbe potuto accadere. Perché il merito della riuscita senza incidenti dell’intero evento è nostro. Dei centomila sorrisi che si sono ritrovati a Trento, dando prova del fatto che forse dalla pandemia siamo usciti migliori. Forse, ma forse, ma sì.

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