In epoca non sospetta, diciamo più di dieci anni fa, l’avevo chiamata “l’antimafia di carta”. Un termine volutamente edulcorato per non trascendere usando termini forse più consoni. Una carta straccia che cominciò a pigliare forma e sostanza proprio all’indomani di quell’estate bastarda del ’92

che ci cambiò la vita. Che ci fece diventare in poche ore adulti. Il cratere di Capaci e lo scenario libanese di via D’Amelio per molti di noi furono il passaggio spaventoso dentro un buco nero che sembra pronto ad inghiottirci tutti. Ma l’orizzonte degli eventi non conteneva solo quell’angoscia spaventosa che ci faceva sentire tutti appesi ad un filo sottile. Conteneva anche splendide occasioni per tanti che ne capire subito la potenzialità.

A farglielo capire fu l’ondata emotiva, il popolo incazzato, i lenzuoli appesi ai balconi di Palermo. Capirono che bisognava diventare surfisti e cavalcarla quell’onda anomala. Capirono che un popolo incazzato, stordito, emotivamente destabilizzato, era pronto a bersi qualsiasi cosa. Il primo passaggio era quello di rendere innocui Falcone e Borsellino. Le bombe li avevano ammazzati. Adesso bisognava trasformarli in qualcosa di profondamente inutile. Due santini, avvolti nella carta velina della retorica. Gli “eroi antimafia” diventavano qualcosa di avulso dalla realtà. Si parlava del loro sacrificio, ma sempre meno del loro lavoro e si cominciava a trattare sempre con più sufficienza chi faceva e si faceva domanda sul perché erano morti. Complice una cultura da strapaese e una folta schiera di giornalisti innocui, che sostituivano l’analisi con l’aneddotica.

Falcone e Borsellino trovarono da morti una schiera di amici che se si fosse palesata da vivi forse avrebbe impedito, non dico la loro fine, ma almeno un non indifferente cumolo di amarezze ed isolamento che entrambi patirono in vita.

E così comincia il grande mascariamento. Li abbiamo visti sfilare certi paladini dell’antimafia. Una schiera che incarnava, dandogli plastica fisicità, l’assunto, allora mal calibrato sull’obiettivo, di Leonardo Sciascia quando parlava di professionisti dell’antimafia. Eppure in questi trent’anni persino l’analisi di Sciascia non basta da sola a decifrare ciò che è accaduto. Sciascia indicava come obiettivo la carriera. Questo è valso per alcuni soggetti: poliziotti, giornalisti con passato ambiguo, qualche politicante, ma non può bastare a descrivere ciò che è avvenuto dietro i cartoni con l’effige di Falcone e Borsellino. L’antimafia che diventa sistema di potere con metodologia mafiosa. Che non usa i killer per ammazzare a colpi di pistola chi non si piega; tiene invece i fili di tanti burattini istituzionali, di magistrati, di poliziotti di uomini dell’intelligence che, più o meno ingenuamente, diventano gli strumenti per assestare colpi pesantissimi a chi osava opporsi al sistema di potere. Al centro ritroviamo Confindustria, l’associazione degli imprenditori siciliani guidata prima da Ivan Lo Bello e quindi da Antonello Montante. Quest’ultimo condannato poi a quattordici anni di carcere.

Il sistema controllava tutto: i grandi affari a cominciare dai rifiuti, e chi era stato cacciato dalla porta, finiva per rientrare dalle innumerevoli finestre. Un cerchio magico che controllava la politica, imponendo assessori di sua fiducia ai governi dell’Isola. Chi alzava la testa e non era ricattabile, finiva nel tritacarne mediatico, come accadde all’ex presidente di Confindustria Catania, Fabio Scaccia, un galantuomo che ebbe la pessima idea di opporsi ai due dioscuri dell’antimafia confindustriale. Venne rimosso e quindi massacrato sui grandi giornali dalle raffinate penne al servizio della Confindustria della legalità. Tutti zitti per anni, tutti ossequiosi, fino a quando, una volta scoppiato lo scandalo, come tanti topi da stiva, si precipitano a lasciare la nave che affonda, tentando di far dimenticare l’ossequio elargito fino a pochi giorni prima.

“La mafia è una montagna di merda”, diceva Peppino Impastato. Ma dirlo a Cinisi, sul finire degli anni Settanta significava morire. Dirlo al crepuscolo dei Novanta e sull’alba del nuovo secolo era uno sport assolutamente innocuo ed era anzi il viatico per ricucirsi l’imene, dopo aver frequentato i peggiori postriboli.

Persino Totò Cuffaro, condannato per mafia ci prova con un certo successo a ripulirsi con un “la mafia fa schifo” scritto sui manifesti. Bastano pochi anni di prudente silenzio per ripresentarsi riverniciati, applauditi e rispettabili. Cuffaro ad esempio viene impudentemente chiamato, fresco di patria galera, a far da relatore ad un paio di corsi deontologici per i giornalisti siciliani, senza che nessuno, tranne un collega che, schifato, abbandonerà la sala, abbia avuto niente da ridire e ad oggi, insieme a Marcello Dell’Utri, altro ex galeotto, indagato a Firenze per le stragi del ’93, è uno dei grandi architetti del centrodestra in Sicilia

Tre decenni, trenta estati messe in fila. I ragazzi di allora che sono invecchiati, molti con amarezza e disillusione. Ma molti ancora con dentro tanta rabbia. Perché bisogna essere incazzati. Esserlo non è un limite.

Una persona un giorno mi rimproverò, con stizza, perché quando parlavo di quella stagione ci mettevo “troppo”. Questa persona, fa il mio stesso mestiere, appartiene ad un’altra generazione e rappresenta forse il sentire diffuso nella società a trent’anni dalle stragi. Un sentire che punta alla superficialità dell’approccio. A semplificare, a banalizzare. Entrare dentro diventa pesante per trova la sua confort zone restando in superficie, facendo finta di non sapere che sotto la superficie placida gli squali non hanno mai smesso di nuotare

Bisogna ricordarsi di quell’estate bastarda e di tutte quelle che sono seguite e ridare umanità, concretezza, realtà a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo povero, sventurato Paese non ha bisogno di altri santi e santini. Non ha bisogno di eroi inarrivabili. Ha bisogno di far propria la dignità che ha perso. Le icone lavano la coscienza, deresponsabilizzano: è accaduto con la Resistenza con la quale il Paese si è lavato la coscienza dal servile ed entusiasta consenso al fascismo ed è accaduto con l’uso iconico ed innocuo delle sagome di cartone di Falcone e Borsellino. Basta una bella parata una volta l’anno e siamo autorizzati a voltarci sempre dall’altra parte.

Allora buttiamole via le foto, le scritte, le frasi. Buttiamo via la retorica e guardiamo l’abisso, perché se non lo guardiamo l’abisso, non troveremo mai la forza per combattere il mostro che si annida dentro quell’abisso e dentro noi stessi.

Articolo Precedente

30 anni da Capaci, Gomez: “Molti politici che si assiepano attorno al feretro di Falcone e Borsellino non sono stati capaci di dire No alla mafia”

next
Articolo Successivo

Trent’anni da Capaci, Maria Falcone: “Lagalla prenda le distanze da Dell’Utri e Cuffaro, non sono limpidi”. E lui non va alla manifestazione

next