Quello che da bambino mi colpiva dei fumetti Marvel era la loro coralità. Il fatto che fosse, letteralmente, un universo. Con la sua geografia del fantastico, le sue variopinte etnie spaziali e un cast di personaggi vastissimo e, soprattutto, interattivo. Si aveva la percezione che un certo pathos, per quanto naif, vibrasse attraverso le motivazioni dei suoi eroi e dei suoi antagonisti senza tuttavia sovrastare quello che il medium richiedeva che fosse: coloratissimo intrattenimento. Un catalizzatore di fantasia a tinte epiche, in cui era però la continuity a dettare i tempi della drammaturgia. I fumetti Marvel erano, di fatto, una saga potenzialmente infinita in cui i personaggi facevano da moltiplicatori alle sue declinazioni narrative. In questo mare magnum di colori e poteri al lettore veniva chiesto solo di scegliere i suoi beniamini e i suoi filoni preferiti, per poi abbandonarsi all’escapismo che trovava più consono.

Quello che possiamo dire, di questa nuova fase “post-Avengers” dei film Marvel, in cui le serie televisive connettono tra loro film sempre più roboanti, è che è assolutamente coerente con quelle atmosfere da chiassoso intrattenimento corale di cui sopra, proprie degli omologhi fumetti sul finire del ventesimo secolo. Difficile parlare di “film” come medium in sé, quando si ha a che fare con un fumettone formalmente stupefacente, talmente collegato a svariate decine di altri fumettoni da renderne il contenuto un fattore parziale. Basta perdersene uno per avere le idee meno chiare sul tutto e doversi limitare allo spettacolo. È come descrivere, un vagone alla volta, un treno di cui non si riesce a intravedere la coda.

Lo stesso vale dunque per Doctor Strange nel Multiverso della Follia, firmato peraltro da un autore di culto nel campo dell’intrattenimento visivo. Quello stesso Sam Raimi che ha reso grande il genere cinecomic vent’anni fa, con la sua prima trilogia di Spider-Man, e che vent’anni prima ancora ha vivacizzato il genere horror con la saga de La Casa. Il più potente Stregone dell’universo conosciuto si affaccia in questo episodio sul Multiverso e, specchiandovisi, lo scopre fragile quanto la propria interiorità. Dovrà quindi lanciarsi tra le dimensioni parallele per salvare dalle grinfie delle tenebre una ragazza, America Chavez, in grado di attraversarle come se fossero stazioni della metropolitana. Tuttavia queste tenebre potrebbero rivelarsi molto più familiari del previsto, e molto più complesse da affrontare, sia in termini pratici che etici.

Benedict Cumberbatch è ormai perfettamente a suo agio nei panni del Doctor Strange e peraltro pare divertirsi ancora molto. Torna anche il sobrio ma spassoso Benedict Wong nelle vesti omonime del suo paziente sodale Wong ed esordisce Xochitl Gomez nella parte della nuova protetta del Mago. Soprattutto torna Elizabeth Olsen nei panni di Wanda Maximoff, la Strega Scarlatta, più potente che mai e forse irrimediabilmente corrotta dai suoi poteri, perduta nel lato oscuro a cui le sue tragedie personali sembrano averla condannata.

Trattandosi del secondo film dedicato al Doctor Strange disorienta un po’ avere a che fare con due personaggi centrali (Wanda e America) che piombano nella sua narrazione davvero ex abrupto rispetto ai capitoli precedenti, ma appunto si tratta della mistica Marvel: tutti insieme appassionatamente e saranno le necessità dell’affresco generale a dettare la linea. Dal punto di vista dell’intrattenimento puro, siamo a livelli d’eccellenza; dal punto di vista filmico invece la trama si fa sempre più esile tra una scena d’azione e una carrellata di effetti visivi “multiversali”. La posta in gioco, confusa di per sé quando si ha a che fare con gli universi paralleli, fa talvolta apparire forzate anche le motivazioni dei personaggi, che risultano portate all’estremo per necessità – per l’appunto – di continuity.

È un cinema che guarda in faccia la propria natura ma decide di rilanciare, di nutrirsi di sé stesso, per estendersi nel tempo. Quando sembra non ci sia più nulla da aggiungere in termini di colpi di scena, ci pensa Sam Raimi a rendere la pellicola degna di essere vista fino in fondo, esibendo il meglio del suo mestiere, tra numeri horror da repertorio e gustose trovate a livello di immaginario visivo. Un vagone d’autore, appunto. In attesa del prossimo.

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