Nel 2021 “il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali ha risentito della dinamica dei prezzi al consumo, marcatamente più vivace di quella delle retribuzioni nominali”. Mentre per quest’anno, “a fronte dell’impennata dell’inflazione si prevede un’accelerazione più moderata delle retribuzioni e dei redditi da lavoro”. A mettere nero su bianco in questi termini le prospettive che i lavoratori dipendenti hanno davanti nei prossimi mesi non sono i sindacati ma il governo, nel Documento di economia e finanza approvato la settimana scorsa. La fiammata dei prezzi complica il già faticoso rinnovo dei contratti: le posizioni delle parti sociali sono agli antipodi. Cgil, Cisl e Uil, che in queste ore hanno visto il ministro del Lavoro Andrea Orlando, chiedono la revisione dell’attuale parametro di riferimento e un intervento straordinario finanziato con la tassazione degli extraprofitti o (copyright Landini) un contributo di solidarietà sulle grandi ricchezze. I vertici di Confindustria evocano il rischio di spirale inflazionistica come negli anni ’70 e ritengono che, vista l’emergenza, serva una nuova decontribuzione a carico delle casse pubbliche.

“Che dalla dinamica dei salari non arriveranno quest’anno ulteriori pressioni sui prezzi, a dire il vero, lo ha scritto dieci giorni fa proprio l’ufficio studi dell’associazione degli industriali nel suo rapporto di previsione”, commenta Andrea Garnero, economista all‘Ocse (ora in sabbatico di ricerca) che ha guidato il gruppo di esperti incaricati da Orlando di misurare il lavoro povero in Italia e proporre soluzioni. “Non potrebbe essere altrimenti visto che oggi il termine di riferimento quando si rinnovano i contratti è l’indice dei prezzi al consumo Ipca, che non tiene conto dei prezzi dei beni energetici importati ed è quindi assai più basso dell’attuale tasso di inflazione”. A marzo, per dire, l’Ipca è salito su base annua del 2,5%, mentre l‘indice generale è cresciuto del 6,7%. Così stando le cose, e con 7,7 milioni di dipendenti privati su 13 con il contratto scaduto, “per i lavoratori ci sarà una perdita di potere d’acquisto significativa, intorno ai 100 euro per chi ne guadagna 1000“. Un’emergenza nell’emergenza, considerato che il rapporto finale della commissione Garnero arriva alla conclusione che già prima della pandemia un quarto dei dipendenti italiani ricadeva nella definizione di working poor.

Per questo, secondo l’economista, oltre ai possibili interventi immediati occorre tenere sempre a mente la necessità di affrontare i problemi di fondo che rendono il mercato del lavoro un Far west. “Partiamo da quel che si può fare subito: lo Stato può dare sussidi e trasferimenti alle fasce più colpite, ma questo in effetti può accelerare l’inflazione di fondo, o procedere con altri tagli orizzontali come quelli già fatti sulle accise. Questa opzione è molto costosa e non mirata (ne beneficia anche chi deve fare il pieno alla Ferrari) ma ha effetti positivi di riduzione dell’inflazione”. E sul fronte della contrattazione? “La discussione sulla modifica dell’indice Ipca mi ricorda quella sui parametri di Maastricht: temo che per quella strada non si risolva molto. Nell’immediato meglio sostenere i rinnovi contrattuali, per esempio defiscalizzandoli in modo che tutti i soldi finiscano nelle tasche dei lavoratori, o favorire soluzioni ponte come quella accettata nei giorni scorsi dal sindacato tedesco dei chimici“, che ha accettato di rimandare all’autunno le trattative sul rinnovo in cambio di un premio un bonus una tantum di 1.400 euro a lavoratore. Un modo per cercare di “passare la nottata”, nella speranza che la guerra in Ucraina trovi soluzione e la fiammata dei prezzi energetici rientri.

Sullo sfondo però “ci sono altre questioni, di cui si parla molto poco: la proliferazione dei contratti pirata, accordi siglati da sigle sindacali e/o datoriali poco rappresentative con il solo obiettivo di ridurre tutele e salari, “e i tanti lavoratori che non sono coperti da alcun contratto nazionale. Sono loro i più colpiti dall’inflazione”. Dopo l’ultimo incontro tra il premier Mario Draghi e i leader sindacali si è parlato di ritorno alla concertazione, allo “spirito del 1993” che portò all’accordo tra sindacati, Confindustria e governo Ciampi (anche se con obiettivi opposti rispetto alla moderazione salariale di cui si discuteva allora). “A chi chiede un patto sociale per discutere di cifre e regole”, chiosa Garnero, “direi che il primo passo deve essere un intervento su questi aspetti. Non possiamo continuare a tollerare che in ampi settori viga il Far west. Serve un vero accordo sulla rappresentanza sindacale“, per limitare il fenomeno della contrattazione pirata. “Va fatto subito: il governo potrebbe proporre alle parti di trovare un accordo entro l’estate e se non lo fanno intervenire con una legge“, invocata l’anno scorso anche da Maurizio Landini.

In parallelo potrebbe partire almeno “una sperimentazione settoriale del salario minimo“, come proposto nella relazione sul lavoro povero. Nonostante l’Italia sia tra i pochi Paesi europei a non prevedere un minimo, le resistenze di molte parti politiche, sindacali e confindustriali finora hanno congelato la discussione sui disegni di legge già in Parlamento, come quello firmato dall’ex ministra Nunzia Catalfo che per rispondere ai dubbi dei sindacati ribadisce la centralità della contrattazione collettiva. Chissà se l’emergenza obbligherà a superare i paletti e fare un primo passo verso l’obiettivo che tutti sostengono di condividere, mettere più soldi in tasca ai lavoratori.

Con l’inflazione che a marzo ha toccato il 6,7% e i forti rincari delle bollette, per molti lavoratori arrivare a fine mese sta diventando sempre più difficile. Inviate a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it le vostre testimonianze

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