Dalle Isole Tremiti a Capraia, dal fiume Sarno a Brindisi. Per un viaggio lungo le coste italiane, tra leggende, storie dimenticate e descrizioni di alcuni dei luoghi più affascinanti d’Italia e del Mediterraneo ma, soprattutto, per raccontare dei danni causati dall’uomo al mare, alle creature che vi abitano e a se stesso. Tra le pagine di Non tutto il mare è perduto (Casti Editore), Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace, accompagna il lettore in questo percorso tra alcune delle tappe delle campagne di monitoraggio dell’associazione. Non solo alla scoperta di un ecosistema soffocato da plastiche e microplastiche. Ogni luogo, dal Santuario Pelagos allo stretto di Messina, è l’occasione per riflettere sulle cause che hanno portato all’emergenza: il Mediterraneo, pur rappresentando solo l’1% delle acque mondiali, secondo le stime dal Wwf contiene il 7% di tutte le microplastiche disperse negli oceani. “Questo libro però – spiega Ungherese – non vuole disegnare uno scenario apocalittico. Al contrario, farsi ispirare dalla bellezza del nostro territorio costiero”. Raccontando non solo dove siano le responsabilità, ma anche quali possono essere le soluzioni.

Quelle zuppe di plastica, da Capraia allo stretto di Messina – La prima meta è l’Arcipelago Toscano e, in particolare, Capraia. Nel tratto di mare che la separa dalla Corsica la contaminazione da microplastiche può raggiungere livelli tra i più alti al mondo. Anche nel bel mezzo del Santuario dei cetacei. In alcuni periodi dell’anno qui si genera una convergenza di correnti marine che dà origine a una zona di accumulo, un hot-spot di contaminazione. Da dove arrivano queste microplastiche? Per esempio dagli imballaggi. Anche se gestita in modo corretto durante tutto il suo ciclo di vita, una bottiglia di plastica può disperdere nell’ambiente una media di circa 100 minuscole particelle. E in Italia ogni anno si consumano circa 11 miliardi di bottiglie di plastica. Un po’ come avviene per le correnti, anche l’incontro delle masse d’acqua ionica e tirrenica, nei pressi dello stretto di Messina, provoca fenomeni naturali che hanno conseguenze sulla presenza di plastica e microplastica. Ricercatori del CNR e dell’Università La Sapienza di Roma hanno effettuato la mappatura di una parte dello Stretto, mostrando una situazione inimmaginabile: barche, ruote, pezzi di elettrodomestici, tavoli e tanto altro. La concentrazione di spazzatura più elevata mai registrata al mondo sui fondali, con picchi di densità di 200 oggetti ogni 10 metri. “Non abbiamo abbastanza attrezzi per raccogliere tutto questo materiale ovunque si trovi disperso – spiega Ungherese – quindi dobbiamo consumare e produrre meno”. Persino al largo delle isole Tremiti, nel 2017, è stata trovata una così alta concentrazione di plastica da spingere il sindaco Antonio Fentini a firmare la prima ordinanza con cui si vietava l’uso di stoviglie in plastica nell’arcipelago. E se a più di 20 anni dall’istituzione dell’aria marina protetta del Santuario Pelagos, Wwf e Greenpeace lamentano ancora l’assenza di regole efficaci a sua tutela, nella zona del Conero ancora si dibatte sull’opportunità o meno di istituirla.

Il Tirreno, il mito del riciclo e la plastica nell’uomo – L’occasione per discutere delle responsabilità delle aziende, del mito del riciclo, ma anche dei materiali alternativi presentati come (false) soluzioni arriva dalla storia del fiume Sarno, che ha un ruolo chiave nella contaminazione del Tirreno meridionale. Oggi è uno dei corsi d’acqua più inquinati d’Europa per la presenza di metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze di varia natura. Rimanendo nel Tirreno, ma quello centrale, nel 2020 è stato pubblicato lo studio di un gruppo di ricercatori inglesi, francesi e tedeschi che ha analizzato la presenza di plastiche in profondità. Nei campioni raccolti è stato registrato il record mondiale di contaminazione, perché è nei fondali marini che finisce, secondo alcune stime, il 99% di questo materiale. “E la contaminazione da microparticelle – spiega Ungherese – è un fenomeno comune in tutte le specie di cui ci cibiamo, come cozze, gamberi, triglie, merluzzi, acciughe, sarde, sgombri, gallinelle e scorfani”. Anche il sale non ne è esente. Il risultato? Nel 2020, i ricercatori dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma e dell’Università Politecnica delle Marche hanno accertato per la prima volta la presenza di frammenti di plastica nella placenta umana. Pochi giorni fa, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca condotta dalla Vrije Universiteit di Amsterdam e nel corso della quale le microplastiche sono state rilevate anche nel sangue umano. Oltre all’intrappolamento nelle reti da pesca e all’ingestione di minuscoli frammenti, involucri e grandi oggetti di plastica, qualcosa di ancora più subdolo può minacciare le creature marine: la contaminazione da ftalati, molecole di sintesi adoperate in varie applicazioni industriali. È un’emergenza di cui si è perso ogni controllo.

Le balle di Cerboli – Lo dimostra la storia della motonave Ivy, salpata a luglio 2015 dal porto di Piombino con oltre duemila tonnellate di rifiuti in plastica. Qualcosa andò storto e, come ricostruito da Greenpeace, “per assicurarle stabilità, al largo di Cerboli, il capitano diede l’ordine di abbandonare in mare 56 balle di combustibile solido secondario provenienti da un impianto di Grosseto e destinati a un inceneritore bulgaro”. Solo a luglio 2020 il governo ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale. “Ancora oggi – scrive Ungherese – circa la metà di quella bomba ecologica giace da qualche parte nel buio delle acque del Tirreno”. Questa vicenda è l’occasione per affrontare il tema del colonialismo dei rifiuti che, soprattutto dopo il bando della Cina, arrivano in Paesi come Thailandia e Malesia, dove spuntano ovunque siti di stoccaggio non autorizzati e discariche illegali.

Brindisi e il futuro dei combustibili – Il viaggio finisce in Puglia, a Brindisi, dalla fine degli anni Sessanta sede di uno dei poli petrolchimici più grandi d’Italia. Nonostante i cambi di proprietà, da oltre mezzo secolo qui si effettua il primo passaggio produttivo delle materie plastiche più comuni, frutto della trasformazione di petrolio e gas fossile. Secondo la British Plastics Federation, il 99% dell’attuale produzione globale di plastica deriva dalla trasformazione dei più noti combustibili fossili. “Nonostante i numeri sempre più allarmanti legati all’inquinamento planetario – scrive l’autore – molte imprese, preoccupate dal rischio di un calo di redditività (dovuto alla competitività delle rinnovabili e alla transizione in corso), stanno facendo enormi investimenti proprio nel settore petrolchimico e nella fabbricazione di polimeri”. La plastica, come àncora dei combustibili fossili.

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Facciamo pace con la Natura: chi insiste sui vecchi modelli economici “è già morto”

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