A tutti i telespettatori che sono stufi di sentire parlare di una guerra attraverso le disquisizioni di un Alessandro De Angelis o di qualche altro suo compagno di talk show, mi permetto di dare un consiglio. Non perdetevi il documentario di Toni Capuozzo 1992-2022. Ritorno all’inferno, in onda il 5 aprile alle 22.15 sulla rete Focus. Ma lo stesso consiglio mi sentirei di dare ai molti inviati in Ucraina che da un mese, eccitatissimi e convinti di svolgere una missione fondamentale per la democrazia e l’intera umanità ci mandano immagini della guerra tutte uguali, spesso prive di riferimenti precisi, piene solo di retorica e di compiacimento della propria abilità giornalistica. E non mi riferisco solo a Giletti.
Conviene a chi volesse seguire il mio consiglio partire dal finale del doc di Capuozzo, là dove confida al compagno di viaggio, Igor Vucic, il cameraman che lo aveva accompagnato nei servizi da Sarajevo assediata trent’anni fa e che lo segue ora nella rivisitazione di quei luoghi, il suo motivo di delusione e insieme di soddisfazione. Tutto quello che abbiamo fatto all’epoca, sul versante giornalistico, documentando il più lungo assedio della storia del Novecento anche a costo di gravi rischi personali, non è servito a nulla – dice all’amico. L’unica cosa che davvero conta è Kemal, il bimbo di pochi mesi mutilato da una granata che ha ucciso la madre che lo teneva in braccio e che Capuozzo ha preso in ospedale, portato in Italia, curato, cresciuto e restituito ai suoi parenti, il padre e i nonni, e che ora festeggia i suoi trent’anni con una torta e il regalo di una borsa di gadget milanisti (scusate la mia attenzione sul particolare).
Potrebbe sembrare un’esagerazione, un’esibizione di falsa modestia se si pensa a ciò che Capuozzo ha fatto conoscere, attraverso le immagini trasmesse dal neonato Tg5, di una guerra tanto vicina nello spazio quanto lontana dall’attenzione degli italiani, preoccupati dalle vicende di tangentopoli e dagli attentati mafiosi e imbarazzati dall’impossibilità di dividere nettamente i buoni dai cattivi.
Ritornano quelle terribili immagini montate dal regista Burchielli a mano a mano che Toni e Igor si aggirano nei luoghi che furono il teatro di quella tragedia: il grande albergo a cui gli inviati accedevano per sicurezza solo dal retro e che ora li accoglie dall’ingresso principale con il tappeto rosso; il fiume e i ponti che lo attraversano; le lapidi che ricordano le vittime; il capolinea della funivia che fu la prima postazione conquistata dai cecchini; il manicomio di Sarajevo da cui i “matti” non poterono uscire neppure da morti per i 4 anni dell’assedio (ma i veri matti erano quelli fuori); il corso principale dove nel ventennale dell’assedio si tenne un concerto davanti a 11.541 sedie vuote di cui 1500 piccole sedie, pari al numero totale dei morti e a quello dei bambini morti. Di tutte è l’immagine più toccante.
Immagini di un passato che non è passato perché il presente è pieno di cicatrici e che scorrono davanti ai nostri occhi senza il mimino accenno di retorica ma mettendo ancora i brividi, quando ci mostrano lo scambio dei prigionieri o rievocano la strage del 5 febbraio al mercato, l’unica occasione in cui Capuozzo pianse telefonando il suo racconto.
Non mi sorprende che un giornalista che ha vissuto queste cose per 1452 giorni, fino in fondo, fino a farsi coinvolgere negli affetti personali, che sa bene cos’è un assedio, una guerra, sia oggi uno dei pochi che di fronte a nuova guerra si preoccupa, si indigna ma non sbraita, non alza i toni, non si abbandona a letture manichee.