Da qualche tempo camminando per le strade di Sarajevo può capitare di cogliere un rumore cupo e lontano, una specie di traccia sonora che a intermittenza fa da sfondo al traffico della città. È il suono prodotto dalle esercitazioni compiute nel cielo della Bosnia-Erzegovina dall’Eufor, la forza di pace dell’Unione europea che, dopo l’esplosione della crisi ucraina, si è affrettata a predisporre l’invio di nuovi contingenti per tutelare il piccolo Paese balcanico. Con l’instabilità politica determinata soprattutto dal leader serbo bosniaco Milorad Dodik che aspira alla secessione della Republika Srpska (una delle due entità che compone il Paese insieme alla Federazione croata-musulmana), la Bosnia rappresenta infatti uno tra i contesti che rischia maggiormente di risentire della guerra in Ucraina. Timori che sono stati messi in luce dal presidente del Consiglio Mario Draghi, secondo cui occorre “far rientrare la crisi politica e istituzionale che paralizza il Paese dallo scorso luglio” e riprendere la strada delle riforme per avvicinarsi all’Unione europea. Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha citato da Bruxelles il caso bosniaco come uno degli scenari “a rischio a causa delle pressioni russe”.

La dimensione di percepita minaccia che si respira nelle sedi istituzionali è la declinazione in chiave internazionale di una preoccupazione fortemente sentita anche sul piano locale. Molti cittadini, nelle ultime settimane, sono corsi nei supermercati per svuotare gli scaffali di olio, farina e altri generi alimentari di prima necessità. “L’insicurezza economica, l’aumento dei prezzi e l’inflazione sono effetti della guerra che ci sono ovunque, ma che in particolare in Bosnia-Erzegovina non vanno sottovalutati – spiega Rodolfo Toè, analista politico ed esperto dell’area balcanica – Qui i cittadini arrivano da una crisi economica che va avanti da dieci anni e con i nuovi aumenti potrebbero decidere di protestare anche in modo violento per chiedere un cambiamento ai vertici. E a quel punto sì, qualcuno potrebbe approfittarne per far collassare la già precaria situazione”.

A legare a stretto giro i Paesi balcanici e la Russia non sono solamente elementi di comunanza identitaria e religiosa. L’ombra che dal Cremlino si stende sui paesi dell’ex Jugoslavia ha soprattutto i contorni di un braccio armato. Ed è soprattutto questo particolare a suscitare tante preoccupazioni nei vertici dell’Unione europea e della Nato. “Se prendiamo il caso della Serbia, possiamo dire che sia un paese europeo per aspirazioni economiche, ma è fortemente dipendente dalla Russia per la sua politica di sicurezza. È sempre stata Mosca a fornirle armi e missili”. Al contempo, però, la Serbia non può permettersi di prendere una posizione troppo distante dai leader europei appoggiando Putin. In gioco c’è il buon esito del lungo percorso di adesione al gruppo dei 27 che dovrebbe concludersi con l’ingresso nel 2025 (insieme al Montenegro).

Nonostante il complesso intreccio di relazioni che uniscono il destino dei Balcani a quello dei russi, Toè sostiene che non ci siano “rischi immediati per la sicurezza della regione, per un motivo molto pratico: Mosca non ha modo di influenzare la situazione, non manderà truppe in Bosnia e la Serbia non agirà militarmente per attuare l’annessione della Republika Srpska di Bosnia. Paradossalmente, anzi, quello che sta succedendo potrebbe avere un effetto quasi calmante, almeno sul breve periodo. Il leader serbo bosniaco Milorad Dodik e i serbi, in generale, potrebbero sentirsi molto più isolati, in qualche modo costretti ad avere un atteggiamento più conciliante nei confronti della comunità internazionale”.

Per quanto la situazione adesso sia sotto controllo, non aiuta il fatto che i riflessi della crisi ucraina pesino sulla stabilità della Bosnia-Erzegovina in un anno particolarmente delicato: quello dei 30 anni dall’inizio del conflitto degli anni Novanta e quello in cui si svolgeranno le elezioni politiche più complicate di sempre, per via delle difficoltà a trovare un accordo sulla riforma elettorale. “Al contrario di quanto accade nei Paesi Baltici, dove la maggioranza dei cittadini è a favore dell’adesione alla Nato, in Bosnia-Erzegovina il tema è estremamente divisivo ed è una differenza di contesti che vale la pena sottolineare. Musulmani e croati sono favorevoli ad avvicinarsi all’Alleanza atlantica, ma i serbi ovviamente no, la percepiscono come l’esercito nemico che li bombardò nel 1999 – afferma l’analista – Un’escalation quindi non è da escludere. Potrebbe avvenire nel momento in cui la Nato portasse concretamente avanti l’integrazione della Bosnia, suscitando la reazione dei serbi. In quel caso Dodik potrebbe approfittarne far precipitare la situazione e dichiarare un referendum per la secessione della Republika Srpska”.

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