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Ucraina, anche le posizioni di Parenzo vanno ‘umanizzate’. E con lui i vari Severgnini e Panebianco

Ucraina, anche le posizioni di Parenzo vanno ‘umanizzate’. E con lui i vari Severgnini e Panebianco
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Alessandro Orsini viene considerato una sorta di Nestbeschmutzer, ovvero uno sporca-nido, uno sputatore nel piatto in cui mangia, un russofilo. Tanto da sentirsi in obbligo di dichiarare che “io amo l’Occidente” (verbatim). La colpa di Orsini pare quella di aver detto, con tono tra il remissivo e l’aggressivo, le cose che una certa scuola critica di filosofia del diritto internazionale, invero piuttosto malvista già vent’anni fa dagli internazionalisti, un po’ gelosi del loro orto, un po’ snobbish rispetto a un’ostentata Realpolitik tutta forza e rispetto dei gendarmi del mondo, diceva da tempo. Si trattava di un orientamento critico che si inseriva nel filone, arato da un certo postmodernismo ma che trovava nella sinistra internazionalista, altermondista, poi moltitudinaria, e in una destra anti-globalizzazione, terreno fertile.

Erano gli anni in cui fioriva una lettura riflessiva della modernità, in cui l’Occidente faceva i conti con se stesso mentre d’altra parte faceva fortuna l’idea che la Storia fosse finita. Ma non era finita per le ragioni che Carl Schmitt rappresentava a un suo ammiratore d’eccezione, il russo naturalizzato francese Alexandre Kojève, al quale scriveva il 7 giugno del 1955 dalla sua Plettenberg/San Casciano: “Che lo ‘Stato’ sia alla fine, è vero; questo Dio mortale è morto […] non è più capace di guerre e di condanne a morte, quindi non è più creatore di storia”. Era finita perché un allievo di Kojève via – come tutti i neocons statunitensi da Paul Wolfowitz in giù – Allan Bloom (quello di The Closing of the American Mind), Francis Fukuyama, volgarizzando le volgarizzazione del maestro e del di lui maestro, aveva sostenuto che il mercato e la globalizzazione dopo la fine dei blocchi avrebbero portato a una diffusione della democrazia e dei diritti.

Sappiamo come è andata a finire. O meglio non lo sappiamo, dal momento che quell’insegnamento critico di cui parlavo è talmente deperito e poi morto che David Parenzo, davanti a un allibito Orsini, si è sentito in diritto di dire che le guerre occidentali almeno erano fatte nel nome dell’esportazione della democrazia, mentre l’aggressione russa è solo una mossa espansionistica. Il professore ha quindi dovuto ricordare a Parenzo che il regime change statunitense ammantato di retorica umanitaria in realtà risponde alla stessa logica di potenza. E ha dunque sostenuto che se vogliamo uscirne dobbiamo abdicare a quella che chiamerei qui logica della crociata, ovvero moralizzazione della guerra: i buoni contro i mostri. Che poi, aggiungo ancora, è la logica premoderna in cui il nemico viene qualificato unilateralmente (dalle grandi potenze imperiali e vincitrici, come gli Stati Uniti) come hostis humani generis, che come tale non solo viene discriminato e considerato sub-umano, ma deve essere annientato essendo sottratto alla protezione del concetto neutralizzante di guerra. “Qui dit humanité – diceva Proudhon – veut tromper”.

Giustamente è stata ricordata la ‘bestializzazione’ nel conflitto tra hutu e tutsi. Ma ricorda Anna Maria Rivera che “a etnicizzare la classe aristocratica dei tutsi e quella degli agricoltori hutu furono i colonizzatori, tedeschi prima e belgi poi”, laddove l’etnia doveva avere appunto un significato difettivo, inferiorizzante. Ancora l’Occidente.

Orbene, se di tutto questo Parenzo dimostra di non sapere niente, Orsini (posto che il punto sia Orsini, e non lo è) invece sembra esserne vagamente avvertito. Eppure, occorre umanizzare Parenzo, e con lui Severgnini, Gramellini, Panebianco, etc. Occorre trattare le loro come tesi di avversari, non di venduti pazzi guerrafondai con l’elmetto. Occorre riconoscere le loro ragioni su un piano di parità e ragionarne. Occorre umanizzare e normalizzare il ‘nemico’ e renderlo avversario ‘legittimo’, anche quando afferma di parlare a nome e per conto della vittima, quando dice umanità.

Tenendo tuttavia presente che, se da un lato assistiamo alla de-umanizzazione dell’aggressore, bisogna anche riconoscere l’iper-umanizzazione della vittima. Essa, in quanto tale, ha sempre ragione? Qualche anno fa, Walter Siti ha scritto che l’esistenza della vittima “viene utilizzata per una visione sentimentale del mondo. Semplificando la complessità dei rapporti di potere nella coppia spettacolare vittima/carnefice, la compassione prende il posto della responsabilità e della lucidità razionale; la vittima mitologica è privata […] del diritto all’errore all’odio e (perché no?) alla mediocrità”. Non vorrei che stessimo iper-umanizzando Zelensky.

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