Una delle fondamentali strutture narrative che popolano la cultura di massa (in particolare nella versione cinematografica hollywoodiana) è questa: c’è una comunità armonica; arriva una minaccia che rischia di distruggere la comunità; un eroe, un’eroina o un team eroico si oppongono alla minaccia; la loro lotta è generosa e giusta, ma rischia di essere vana, poiché i nemici sono sul punto di sopraffare gli eroici difensori; ma poi, con un colpo di scena finale, l’eroe, l’eroina o il team eroico riescono battere i minacciosi nemici e a restituire la felicità, la libertà e l’armonia (o quel che ne resta) alla comunità. Certo, a volte la vittoria viene conquistata con qualche perdita collaterale: ma – sia come sia – giustizia è fatta.

Questo è uno schema che (con gli opportuni adattamenti) attraversa le narrazioni hollywoodiane dalle origini fino ai più recenti successi supereroici. È uno schema molto rassicurante e confortante. Ma di sicuro è anche molto infantilizzante. Si basa su principi elementari: buoni-cattivi; aggressori-aggrediti; bene-male; criminali-eroi. Ed è uno schema molto diffuso.

Ma c’è anche una variante più articolata, che si struttura così: c’è una comunità libera, anche se divisa; la sua libertà è minacciata da un esercito di aggressori, fisicamente e moralmente orridi; un manipolo di eroi cerca di opporsi, per ritardare l’avanzata dei nemici; gli aggressori sono in difficoltà, ma sono più numerosi e meglio armati, e alla fine sterminano i resistenti. I caduti da eroi si trasformano in martiri: i loro corpi ricoprono un’intera desolata pianura; il cadavere del loro capo è fissato in una posa cristologica, crivellato di colpi, con le braccia spalancate, come se fosse morto in croce, anche se in effetti è sdraiato per terra.

Questa evocazione della simbologia cristologica è cruciale per la trasformazione degli eroi in martiri: nella tradizione cristiana, un martire è colui che dà testimonianza della sua fede alla sua comunità; nel lessico delle ideologie contemporanee, un martire politico svolge una funzione simile. Perché un eroe si trasformi in martire è necessario che le sue gesta siano ricordate; e così viene fatto; agli eroi/martiri la comunità di appartenenza dedica storie, tributi, onori. Qu esto schema narrativo è molto presente nelle narrazioni politiche ottocentesche, che molto spesso si fermano qui, alla morte eroica dell’eroe e all’attesa di un futuro riscatto della comunità oppressa.

Nelle narrazioni hollywoodiane contemporanee, però, la storia non si ferma qui. Il riscatto non è proiettato in un futuro indefinito: è realizzato subito; e infatti, il sacrificio degli eroi è immediatamente vendicato dalla giusta controffensiva dei buoni e dalla vittoria finale: il bene trionfa sul male, adesso, non in un indeterminato futuro.

A cosa sto pensando, in particolare? Ho modellato il riassunto di questa variante sulla struttura narrativa di 300, un film di Zack Snyder del 2007, tratto da una graphic novel di Frank Miller. 300 è un film molto politico, con evidenti riferimenti alle guerre coeve in Medio Oriente; Miller, fra l’altro, è autore di una delle graphic novels più politiche e più rozze che si possano incontrare sul tema, Sacro terrore, del 2011. Ma uno schema simile si può trovare anche in altre produzioni, meno direttamente politiche, come per esempio Avengers: Endgame, un film di Joe e Anthony Russo, del 2019, in cui la morte sacrificale di Iron Man propizia la sconfitta (e la morte) dell’arcinemico Thanos (non storcete il naso: lo so che questo, in particolare, è un film esteticamente molto mediocre; e anche sull’altro si possono avanzare legittimi dubbi: ma 300 ha guadagnato 456 milioni di dollari ed Endgame 2 miliardi e 700 milioni: così va la cultura di massa …).

Come hanno detto Roberto Saviano e Wu Ming 1, che per qualche loro motivo hanno apprezzato 300, queste sono forme narrative potenti. Giusto: anzi, sono talmente potenti da influenzare molto direttamente anche il modo in cui una parte cospicua degli opinion makers ha raccontato, e racconta, le guerre contemporanee.

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