“I rincari dell’energia sono esponenziali: se continua così saremo costretti ad aumentare i prezzi”. Non nasconde la preoccupazione Paolo Tanara, titolare del prosciuttificio Tanara Giancarlo, 20 milioni di euro di fatturato e 45 dipendenti a Langhirano, in provincia di Parma. Sono in molti nel suo settore a registrare un aumento dei costi di produzione di circa il 15-20%. I prosciuttifici, infatti, consumano molta energia. “Gli impianti frigoriferi vanno lasciati accesi 24 ore al giorno sette giorni su sette”, prosegue Tanara, e “il costo mensile di luce e gas è raddoppiato rispetto al primo semestre del 2021”. Ma il problema non è solo l’energia: ci sono anche le difficoltà nei rifornimenti. Negli ultimi mesi, i prezzi delle materie prime e di quelle secondarie (imballaggi, plastica, cartone) sono esplosi. “Il costo della corda per appendere i prosciutti è raddoppiato mentre la pellicola per fasciare i bancali è triplicata e non si trova”. Il prosciuttificio Tanara è una delle migliaia di piccole e medie imprese del parmense che stanno affrontando la più violenta crisi energetica dallo choc petrolifero del ’73, quando il prezzo del greggio quadruplicò nel giro di pochi mesi. E purtroppo a contenere i costi non è sufficiente nemmeno l’acquisto di grossi volumi attraverso il Ceip, consorzio energetico che raccoglie oltre 300 aziende di Parma e provincia.

Nato sotto l’egida dell’unione degli industriali locali, il Ceip infatti ha come obiettivo quello di aumentare il potere negoziale delle imprese nei confronti dei fornitori. In un mercato fuori controllo, però, è sempre più difficile riuscire a strappare un buon prezzo. Secondo l’ultimo report dell’associazione degli artigiani Cna, nel 2021 il prezzo dell’energia elettrica è cresciuto del 222,4% sul 2020 e del 139,8% sul 2019. Per le imprese manifatturiere il risultato è stato un aumento delle bollette del 29,9%. E non ci sono schiarite in vista. “Le stime dei rincari per quest’anno si situano in una forchetta del 130-140%”, sottolinea Fabrizio Ferrarini, responsabile economico della Cna di Reggio Emilia. “C’è una criticità fortissima sui forni e gli altiforni, soprattutto per la ceramica”, spiega Ferrarini. Si tratta infatti di imprese che consumano tantissima energia. “Le carrozzerie con altiforni sono ferme: gli imprenditori decidono al mattino se aprire o no l’azienda”. Si tratta in massima parte di piccole attività. E con il prezzo dell’elettricità per kilowattora schizzato da 0,12-0,14 euro a 0,28-0,32, in molti valutano giorno per giorno se sia conveniente accendere gli impianti. “Se nel 2021 i rincari hanno toccato tre aziende su quattro, ora colpiscono quasi tutti”, prosegue Ferrarini. Che spiega anche come funziona il mercato energetico per le imprese.

I piccoli non hanno potere contrattuale – “Ci sono due modi: attraverso il libero mercato, con contratti diretti con grossi fornitori, oppure attraverso il brokeraggio”. Soltanto le società più grandi riescono a rifornirsi direttamente dai colossi dell’energia. Per le altre, una soluzione è rappresentata dagli intermediari. Le imprese più piccole, infatti, spesso si uniscono e si affidano a broker dell’energia che acquistano grossi volumi e poi li allocano alle singole aziende. In questo modo i risparmi sono anche del 5%. Entrambi gli schemi, però, sono appannaggio di realtà strutturate. I pesci più piccoli rimangono esclusi. Si crea così un divario tra chi riesce a barcamenarsi e chi, invece, è costretto ad adeguarsi alle condizioni, spesso proibitive, del mercato. “Purtroppo noi non abbiamo un grosso potere contrattuale” spiega Massimo Rizzoli, patron di Rizzoli Emanuelli Spa, la più antica azienda ittica italiana, fondata nel 1906. “Anche se non siamo un’industria molto energivora, i nostri costi di produzione sono aumentati tra l’8 e il 15%”. A incidere, in questo caso, sono soprattutto i rincari della materia prima: il pesce. Infatti, “il gasolio, che rappresenta il 40% dei costi di un peschereccio, è aumentato del 60%”, sottolinea l’imprenditore. Insomma, seppure in modo indiretto, l’esplosione dei prezzi dell’energia tocca anche imprese che ne consumano poca. “Senza contare i costi di trasporto che sono saliti dell’80% sui prodotti importati”, conclude Rizzoli.

Il peso delle quote di emissione – Per le grandi imprese alimentari un peso ce l’ha anche il meccanismo europeo per lo scambio delle quote di emissione (Ets), spiega Fabio Delmiglio direttore industriale di Greci, azienda del gruppo Carisma specializzata nelle conserve di alta qualità e in prodotti per la ristorazione. Quando supera le emissioni di Co2 coperte dalle quote assegnate gratuitamente, il gruppo deve infatti acquistarle sul mercato. “È una soprattassa che rimarrà anche quando i prezzi dell’energia caleranno”, secondo Delmiglio. Il sistema dei certificati europei, secondo il manager, segue logiche speculative. “I permessi per inquinare incidono per l’1,5% sui nostri costi variabili e prevediamo che il loro prezzo aumenterà dagli attuali 85 euro per tonnellata di Co2 a 150 euro nei prossimi dodici mesi”. L’impresa parmense, 80 milioni di ricavi e 190 dipendenti, si serve di consulenti per riuscire a soddisfare il proprio fabbisogno energetico in modo flessibile. Allo stesso tempo, Greci si sta muovendo per limitare le emissioni attraverso innovazioni di processo e l’uso di fonti rinnovabili. “La transizione ecologica costerà molto cara: l’unica strada è abbattere i consumi”, conclude Delmiglio.

Il bivio tra aumento dei prezzi e perdita di quote di mercato – I rincari pongono le aziende davanti a un bivio: aumentare i prezzi per compensare i maggiori costi o lasciarli invariati, col rischio di andare in perdita? “Ci troviamo tra due fuochi: da un lato i fornitori, dall’altro i clienti”, evidenzia Vincenzo Di Giuseppantonio, direttore generale della Bormioli Rocco Spa. “Per il momento stiamo cercando di recuperare solo la metà dell’aumento dei costi”. Il rischio, infatti, è di perdere quote di mercato. Una situazione che, però, non può continuare a lungo. “Possiamo reggere 3-4 mesi dopodiché o i valori dell’energia elettrica calano oppure si è costretti ad aumentare i prezzi in modo sostanzioso”, avverte il manager. Del resto Bormioli è un’eccellenza dell’industria vetraria, un settore altamente energivoro. Secondo i dati della società, per far funzionare le linee produttive servono 250 milioni di kilowattora e 75 milioni di metri cubi di metano all’anno. Consumi che, a gennaio, si sono tradotti in una bolletta più cara di 8 milioni di euro rispetto a un anno prima.

Un trend che, se confermato, sarebbe pesantissimo. “Per il 2022 stiamo parlando di aumenti nei costi di produzione del 25%, pari a 80 milioni di euro” ricorda Di Giuseppantonio. Tuttavia, in questo mercato energetico impazzito, anche una realtà importante come Bormioli, 2300 dipendenti e 500 milioni di ricavi, può fare poco. “Purtroppo il potere contrattuale non ci serve perché sono valori contrattati sulla borsa elettrica e del metano”, spiega il direttore generale. Infatti, la volatilità dei prezzi ha frenato i trader a fare contratti a media o lunga scadenza. “Acquistiamo sui mercati spot giorno per giorno, col prezzo mensile della bolletta che è una media dei valori giornalieri”. In pratica, si tratta di contratti con scadenze brevissime. A seconda delle diverse tipologie del mercato, infatti, l’acquisto avviene al massimo nove giorni prima della fornitura. Tuttavia a pesare su industrie energivore come Bormioli ci sono anche i costi delle materie prime e degli imballaggi, con aumenti del 15-20%. Ma è soprattutto il confronto sullo scenario internazionale che preoccupa. “C’è un tema di perdita di competitività dell’industria italiana: il 75% della produzione di Bormioli è destinata all’estero”, ricorda il manager. Un arretramento che è anche dovuto alle diverse misure messe in campo dai governi per fronteggiare il caro energia. “I più importanti Paesi dell’Unione europea hanno fatto interventi strutturali” prosegue il direttore generale di Bormioli “mentre da noi, finora, ci si è limitati all’azzeramento degli oneri di sistema, che, però, vale poco: circa 15 euro al megawattora (su 293, ndr)”. L’auspicio di Di Giuseppantonio è che il governo faccia presto: “Aspettiamo con ansia il decreto per le imprese energivore”.

La Mutti (per ora) meno toccata. Ma in autunno l’impatto si sentirà – Il tessuto produttivo locale infatti è concentrato soprattutto nel settore alimentare, un comparto che consuma grandi quantità di energia. L’agroalimentare, infatti, conta 14mila addetti e rappresenta più del 40% del fatturato totale dell’industria parmense. Nel 2020 il settore ha registrato ricavi per 7,8 miliardi di euro ed esportazioni per 1,8 miliardi. Si tratta di un comparto tanto importante per l’economia locale quanto in difficoltà. Anche se ci sono alcune eccezioni. Una di queste è Mutti, impresa specializzata in conserve alimentari, in particolare nel settore del pomodoro. Con un fatturato di 465 milioni di euro nel 2020 e 400 dipendenti che arrivano a 1500 d’estate, Mutti per il momento sembra essere meno toccata dal caro energia. L’azienda, per la particolarità del ciclo produttivo, non ha ancora sperimentato i rincari che altre aziende del settore alimentare lamentano. La raccolta del pomodoro, infatti, si svolge da metà luglio a fine settembre, periodo nel quale il caro energia era ancora contenuto. Se le cose non dovessero cambiare, però, “è probabile che ci sarà un aumento dei prezzi a ottobre”, fa sapere la società in una nota. Un aumento giustificato dalle stime sui costi di produzione, previsti in rialzo del 15-20% per il 2022. Infatti, sebbene l’attività dell’impresa si concentri in circa settanta giorni all’anno, i rincari si sono già fatti sentire. Nel 2021, la spesa per la fornitura del gas, elemento indispensabile per un’industria che fa conserve, ha inciso sul bilancio del gruppo per il 7%, contro l’1,8% dell’anno prima.

Consorzio del Parmigiano all’angolo per l’aumento dei foraggi – Una situazione in parte diversa si verifica per un’altra eccellenza del territorio: il Parmigiano Reggiano. Secondo il Consorzio, l’impatto energetico c’è, ma è piuttosto contenuto. Quello che incide di più sono i forti aumenti delle materie prime. In particolare, a essere cresciuto è il prezzo del foraggio. Secondo i dati del Consorzio, il costo medio di una razione di biada è passato da 6 a oltre 9 euro. E causa di questi aumenti è sicuramente il gasolio. Le accise agevolate non sono state sufficienti a compensare gli incrementi dei prezzi del carburante, aumentato del 20%. Anche il Caseificio Gennari di Collecchio, 22 milioni di euro di fatturato e 50 dipendenti, ha visto crescere i costi di produzione del 10-15%. Per il titolare l’incremento è stato causato “soprattutto dalle materie prime che sono aumentate del 10-30%”. Per l’economia del territorio il Parmigiano Reggiano rappresenta un settore molto importante, con 305 caseifici e oltre 50mila addetti. Stando ai dati del Consorzio, nel 2021 il giro d’affari al consumo è stato di 2,7 miliardi di euro e il 45% della produzione è stata esportata.

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