Il 31 gennaio, come ogni anno, gli italiani dovranno pagare il canone. Nessuno in Rai, a quanto pare, pagherà invece per il sacco di opere d’arte che dagli anni Settanta ad oggi sono state trafugate da viale Mazzini, con un danno di milioni di euro per le casse dello Stato. “Non ci sono colpevoli”, titola oggi Il Messaggero. Perché nonostante sia stato individuato il dipendente che nel 1973 trafugò un dipinto di Rosai, nonostante sia pure reo confesso, il reato è prescritto. Mentre per altro verso, chi ha scoperchiato le ruberie è licenziato.

L’indagine penale della Procura di Roma si è arenata col tempo: la scoperta degli ammanchi infatti è storia recente mentre i furti sono stati commessi tra gli anni Settanta e la prima decade del 2000. Si tratta di un centinaio di opere, alcune di inestimabile valore, acquistate dalla Rai ma che in un quarto di secolo sono state fatte sparire nel nulla, spogliando col saccheggio di capolavori che facevano parte di un patrimonio di 1500 opere, con un controvalore stimato in almeno 100 milioni di euro.

I sospettati sono dipendenti infedeli in tutte le sedi della televisione pubblica, dal Nord al Sud. Tra quelle scomparse ci sono un Petit fils di Amedeo Modigliani, La Route de Sèvres di Camille Corot, Paysage de Verneuil di Claude Monet, o ancora Vita nei campi di Giorgio de Chirico che fu appeso per l’ultima volta nella sede della Rai nel 2004. Ma anche arazzi e sculture si sono volatilizzati nel nulla. Sparite anche quattro riproduzioni in miniatura, d’argento e di bronzo, del celebre Cavallo di Francesco Messina, simbolo stesso dell’emittenza pubblica che – forse a causa del peso – nessuno è riuscito ancora a rimuovere dall’ingresso della sede principale della Rai.

A denunciare il saccheggio dei beni della tv pubblica erano stati gli stessi vertici Rai dopo una scoperta del tutto “incidentale”: il 4 maggio 2020 un quadro che si pensava di Ottone Rosai (Architettura), si stacca dalla parete e precipita a terra e solo allora ci si accorge che l’opera, di notevole valore, era stata sostituita con una replica, mentre l’originale – hanno poi appurato le indagini – era stato venduto negli anni Settanta per 25 milioni di lire. Quel ladro è stato individuato, ha anche ammesso tutto, ma alla fine l’ha fatta franca: dopo 40 anni infatti il reato è ultra-prescritto, la Procura non ha potuto far altro che archiviare.

L’altro paradosso della storia è che chi per primo segnalò l’andazzo è stato licenziato in tronco. Si tratta dell’ex direttore dei beni artistici Nicola Sinisi, messo fuori dai cancelli di Viale Mazzini a sei mesi dalla pensione per volontà dell’amministratore delegato Carlo Fuortes per un intervento in commissione Vigilanza Rai del 22 giugno nel quale denunciava le ruberie con l’ipotesi di un “basista” dentro l’azienda, e al tempo stesso la controversa questione di un “presepe laico” commissionato dall’azienda e mai esposto. Dichiarazioni che non gli furono perdonate, innescando richiami disciplinari fino al licenziamento non senza un profluvio di interrogazioni parlamentari.

A cosa si riferiva l’ex direttore dei beni? Gli investigatori vanno avanti perché, almeno sul fronte civile, ci sia il sequestro dei beni eventualmente rintracciati. Da qui, stando alle notizie raccolte dal Messaggero, potrebbero arrivare sviluppi. Buona parte dei dipinti è scomparsa nel nulla almeno a partire dal 1966, anno in cui la tv pubblica organizza in quel di Lecce una mostra dal titolo Opere del Novecento Italiano nella collezione della Radiotelevisione. Ebbene, gran parte delle tele oggi introvabili all’epoca furono esposte lì.

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