Prima che passi il 2021, ricordo di nuovo un anniversario celebrato quest’anno: il centenario della morte di Enrico Caruso. L’occasione è offerta da un libro di Maurizio Sessa, giornalista professionista – per anni ha lavorato a La Nazione – ma anche collezionista e melomane appassionato.

Ha pubblicato di recente Caruso & Friends: la nascita del re dei tenori (Florence Art Edizioni), una biografia del grande cantante che prende le mosse da un mazzo di foto di personaggi più o meno illustri, finora inedite, corredate da dediche all’artista. Le fonti documentarie su Caruso, abbondanti, hanno subìto una certa dispersione, essendosi svolta la carriera del cantante in varie parti del mondo: una raccolta sistematica che, perciò, incontra varie difficoltà. Reperite sul mercato antiquario, queste foto ci mostrano un Caruso visto “dagli altri”, ossia da personaggi che gli ruotarono attorno ed ebbero con lui rapporti di lavoro e d’amicizia. In tal modo Sessa traccia un quadro dell’ambiente culturale e professionale del tenore negli anni del suo spettacolare successo.

Una foto ritrae Mattia Battistini, baritono osannato, che Enrico incontrò nel 1899 a Pietroburgo. Cantarono insieme nella Traviata: Caruso fu Alfredo, Battistini, di 17 anni più anziano, Giorgio Germont. La foto dà spunto a Sessa per ripercorrere la tournée russa del tenore, ma anche alcuni aspetti della vicenda sentimentale col soprano Ada Giachetti, artista peraltro assai stimata dallo stesso Battistini.

Meno famoso è invece Giuseppe Belletti, “impresario dimenticato”, dice Sessa. Se ne sa poco, di certo viveva a Bologna: qui il 30 novembre 1901 Caruso, di ritorno dalla Russia, cantò nel Rigoletto. Nella dedica impressa sulla foto, Belletti lo definisce “amico e celebre artista” e si firma “il suo affezionato e riconoscente impresario”.

Lapidaria è invece, in una foto del 1904, la dedica del soprano Nellie Melba, la dominatrice del Covent Garden. La diva australiana era abituata a sentirsi sovrana indiscussa: pur nella galanteria di cui Caruso dava sempre prova, qualche attrito ci dovette essere. I cachet iperbolici da lui richiesti erano comunque inferiori a quelli della Melba: il che doveva infastidirlo. Pertanto il buon rapporto fu più di facciata che davvero sentito: alcune frasi riportate da Tullio Serafin, che diresse i due a Parigi nel Rigoletto, lo testimoniano. Comunque nelle sue Melodies and Memories (Londra 1925) la cantante evocò in toni amichevoli la loro collaborazione artistica; quanto a Caruso, l’aveva ritratta in una delle sue mille caricature a penna.

Una dedica di peso è di Angelo Neumann (1838-1910): “Al impareggiabile artista Enrico Caruso che mi ha rinovato il grande tempo dell’illustre Opera Italiana della mia giovinezza”. Nel riferimento nostalgico Neumann allude alla propria carriera: era stato baritono, poi direttore d’orchestra e infine impresario; ardente wagneriano, autore di un libro di ricordi personali (Erinnerungen an Richard Wagner, 1907), ne aveva diretto e promosso i drammi musicali a Bayreuth, Lipsia, Praga. Da parte sua, soltanto una volta Caruso comparve in un’opera del compositore tedesco: cantò Lohengrin a Buenos Aires, beninteso in italiano, nell’estate 1901.

Un altro rapporto intenso fu con Francesco Cilea, l’autore di Adriana Lecouvreur. L’opera debuttò a Milano nel 1902, con Caruso nei panni di Maurizio di Sassonia. Il successo fu strepitoso. Il compositore francese Jules Massenet, che era in sala, ne scrisse al compositore in termini entusiastici. Anche la critica giornalistica fu affascinata, e Gabriele d’Annunzio parlò di “vera voluttà estetica”. In una foto dell’8 dicembre 1902 Cilea appose una dedica affettuosa: “Ad E. Caruso – al primo meraviglioso Maurizio con ammirazione convinta il riconoscente F. Cilea”. Nel 1907, con Lina Cavalieri, il tenore portò Adriana al Metropolitan di New York.

Tanti altri personaggi emergono nel libro di Sessa, senza foto e dediche. Da ognuno di essi l’autore muove per tessere la trama della biografia del tenore – viaggi, trionfi, gioie, desideri, malinconie, dolori – e per sottolineare ch’egli fu anche uomo generosissimo, per il quale l’amicizia era un bene sacro. Il libro porta con sé un messaggio di vita, di cui il “soave cantore” napoletano è emblema: tutti noi siamo sì il frutto della nostra volontà, dello studio, dell’applicazione, ma anche, e forse soprattutto, degli incontri con gli altri, dello scambio con i migliori, i più umili inclusi. In fondo, dobbiamo riconoscerlo, siamo per tanti versi quel che gli altri ci fanno diventare.

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