Cala il sipario sul Bagaglino della Leopolda, con la coppia Matteo Renzi e Maria Elena Boschi – i Bonnie e Clyde della politica alla ribollita – a sparare proiettili caricati a vittimismo. Reiterazione – se ce n’era bisogno – dell’avvenuta separazione tra verità e politica, consumatasi nel lungo travaglio iniziato un quarto di secolo fa; quando sulla scena apparve il modello di ogni futuro mentitore seriale: Silvio Berlusconi.

Grazie al pifferaio di Arcore anche l’Italia venne contagiata da quella pandemia dello spirito critico accompagnata a un altro divorzio, di ben maggiore impatto: le nozze tra democrazia e capitalismo, su cui si era retto il primo ventennio del dopoguerra.

Nasceva così quel regno del falso insediatosi nella mente collettiva attraverso la mimetizzazione della sua stessa esistenza; la cancellazione ininterrotta delle conquiste di civiltà che avevano resa apprezzabile la fase storica precedente. Lo scrivo mentre veleggio verso i settantacinque anni e ho presente come le generazioni successive alla mia fossero totalmente indifferenti al problema di dover vivere in un habitat costruito sulla finzione; in piena ansia da essere imbarcate sul carro dei vincenti. Tanto da venir spiazzate dall’avvento dei nipotini, infuriati alla scoperta dell’immensa fregatura che stanno ereditando; per cui eleggono Greta Thunberg portavoce della loro protesta indignata. E non è un caso che sono gli ultrasessantenni alla Alessandro Sallusti a guidare la manovra di avvelenamento mediatico contro l’improvvisa irruzione degli under 21, colorando di assonanze indecenti il loro illusionismo: tipo la storpiatura del nome della ragazzina norvegese in “gretina”.

Il tamburo del negazionismo e della strumentalizzazione rullano a pieno regime; sicché nei talk-show si può prevedere in anticipo cosa dirà l’ospite di turno, a seconda dei suoi padroni da assecondare o del target di lettori da vellicare. Mentre chi fa lavoro intellettuale ha disponibili solo due opzioni adattive: o il disincanto (“così va il mondo”) o la rassegnazione (“tanto non mi stanno a sentire”).

Fortunatamente le mistificazioni mediatiche sono di relativamente breve duratura e si consumano rapidamente. Vedi l’immane strategia propagandistica messa in campo, grosso modo un anno fa, per la beatificazione di Mario Draghi (un remake dell’infausta operazione Monti), allo scopo di estromettere l’ingombrante e non commestibile predecessore. Ora il completamento dell’operazione con l’ascesa al post Mattarella inizia ad avere battute d’arresto. Difatti la quadratura del cerchio presidenzialistico da regime, incarnata dall’algido banchiere, trova in campo ben due scenari alternativi: “la manovra indecenza” con l’elezione del vecchio bucaniere mummificato Silvio (ancora abilissimo nell’arruolare votanti nell’isola della Tortuga di Montecitorio) e quella “scolorina”, con la nomina di un’entità diafana passepartout (tipo Gentiloni).

Ancora ho negli occhi i vaffa dei commentatori dei miei post, a dir poco inviperiti per la blasfemia del laico avverso a qualsivoglia ascensione sacrale. Tipo giaculatoria sul prestigio universale del finanziere romano-francofortese. “Tutti ce lo invidiamo”? “È lui il dopo Merkel”?

Per sapere la verità bastava leggere cosa ne scriveva l’autorevole storico dell’Università della California Percy Anderson nel 2014: “Al suo arrivo alla Bce, Draghi si è presentato all’opinione pubblica tedesca come un guardiano Kaisertreu (“fedele all’imperatore”) della disciplina finanziaria. In realtà era un tipico prodotto del mondo bancario e burocratico italiano, e dei suoi usi e costumi. In stretta consonanza con la Merkel, ha giocato la sua parte nel favorire la caduta di Berlusconi nel 2011 […] Non c’è un presidente della Bce meglio equipaggiato a sovrintendere al cambiamento di quello proveniente dalla terra dell’adagio fatta la legge, trovato l’inganno“. Ancora più liquidatorio nel 2015 Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Planck di Colonia: “Se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi […] che cosa si deve fare per ripristinare una democrazia capace di servire da correttivo significativo del capitalismo?”.

Questo è quanto pensano due tra i principali esponenti della cultura mondiale. Ma i nostri propagandisti non leggono la saggistica di lingua straniera. Campanilisti provincialotti come sono, pensano tuttora che siamo i meglio fichi del bigoncio. Come sono convinti che “bene come si mangia in Italia…”. Non sanno che la classifica dei migliori ristoranti europei Top 100 2019 vede in testa il Frantzen di Stoccolma, seguito da Schauenstein delle Alpi Svizzere, Asador Etxebarri dei Paesi Baschi, l’Arpege di Parigi e Quique Dacosta di Alicante.

Articolo Precedente

Draghi al Quirinale sembra l’unica via, ma nessuno vuole le urne: un racconto già scritto

next
Articolo Successivo

Green pass, Guido Rasi: “Un anno di validità è troppo, ce lo dice la scienza. Va accorciata a 6 o 9 mesi”

next