Caro Manuel,

chi ti scrive fa parte di quella generazione cresciuta, bene o male saranno gli altri a dirlo, anche coi dischi degli Afterhours, una colonna sonora niente male per chi negli anni Novanta, per motivi di età, per noia o per pura curiosità, era in cerca di nuove, inedite e originali entità musicali: gli Afterhours, insieme ai C.S.I. e a poche altre band del panorama italiano (sul finire della decade i Subsonica e i Bluvertigo), era certamente una di quelle. Perciò, anche e soprattutto per i messaggi veicolati nei brani di quella storica band, mi sembrò assurdo, qualche anno fa, tu partecipassi in qualità di giudice a un talent show, una sorta di contraddizione in termini per chi, rivolgendosi ai figli di papà della Milano bene, cantava: “Sabato in barca a vela e lunedì al Leoncavallo”.

Ma era, ed è, un limite mio: non amo i talent, tutto qui, non li amo e non apprezzo il tipo di televisione che fanno, il tipo di messaggio che veicolano, il modo in cui trattano la musica e le competizioni che in suo nome vengono ingaggiate: non mi piacciono le loro finalità, il tipo di prodotti che sfornano e la sostituzione che propongono a quella vera gavetta che tutti in passato, anche tu, hanno fatto per costruirsi un vera identità musicale, una reale personalità artistica. Nessuno studio televisivo, facendo da acceleratore di successo, potrà mai sostituirsi a quella. Lo so, nel dire, pensare e sentire queste cose faccio oramai parte di una minoranza, forse anche sparuta, ma pure tu, orgogliosamente, hai per tanto tempo militato nelle minoranze, sei a lungo stato tutto fuorché mainstream, dunque certamente potrai capire. E per carità, dopo questo insopportabile pistolotto bisogna anche dire che senza X Factor oggi probabilmente non staresti qui a celebrare lo strepitoso successo di una band che a ragione senti anche un po’ tua e a cui per ovvi motivi sei particolarmente legato: i Måneskin hanno conquistato mezzo globo, e che piacciano o non piacciano, che li si avversi o meno, il loro è un trionfo assolutamente oggettivo.

Sono d’accordo con quasi tutto quello che hai recentemente dichiarato a riguardo: col fatto che una volta tanto è l’Italia a esportare la propria musica rock, sul fatto che una rock band di tale peso mediatico il nostro Paese non l’aveva mai avuta, anche sul ritorno di un rock capace di riaffermare il ‘noi’ a scapito di un rap che ha imposto negli ultimi anni la sola dimensione dell’io onanisticamente autocelebrativo. Sono d’accordo su molto, su tanto, non su tutto però. Dici di non voler fare paragoni, ma poi li fai e per giunta sbagliati: perché tirare in mezzo i Beatles? Anzi, meglio: perché tirarli in mezzo in quel modo? “Pensiamo ai Beatles: quando sono usciti, parliamoci chiaro, erano una boyband. I capelli perfettamente pettinati a caschetto, i completi con la cravattina, le ragazzine che li inseguivano. Avevano già un suono personale ma alla musica davvero immortale, alle sperimentazioni, ci hanno pensato qualche anno più tardi quando erano più cresciuti e forse anche stanchi di quella dimensione”.

Andiamo per gradi: tutti sappiamo come solo nella seconda metà degli anni Sessanta la band di Liverpool abbia, con la grossa mano di George Martin, scritto pagine di musica che andavano ben oltre le strette maglie della forma-canzone rock e dei suoi canoni timbrici, estetici e linguistici. Ciò non toglie il fatto però che i primi album, quelli appartenenti alla prima metà di quell’incredibile decennio, siano produzioni rivoluzionarie e assolutamente durature, e ciò nonostante capelli a caschetto e vestitini tutti uguali che, a ben vedere, non facevano affatto di loro una boyband. Un luogo comune, quest’ultimo, che circola già da un po’ e che tu hai sonoramente rilanciato in un’uscita, fattelo dire, alquanto impropria. Cos’è per te una boyband? Una band nella quale i componenti vestono tutti in modo uguale e portano tutti il medesimo taglio di capelli? Dunque, per te, il fatto di appartenere o meno a una boyband si sostanzia in una pura questione di forma? Non c’entra nulla la sostanza musicale? Te lo chiedo perché mi sembra il caso, alla luce delle tue recenti affermazioni, di rammentare al pubblico cosa realmente sia una boyband: un prodotto creato a tavolino da uno o più produttori che ingaggiano ragazzi al fine di formare un gruppo prima d’allora inesistente. Questa è una boyband, e i vestitini tutti uguali, come anche i capelli a caschetto, non c’entrano proprio nulla (e di fatto non li trovi neanche nelle vere boyband).

Dunque, perché i Beatles non sono mai stati una boyband? Perché si dà il caso i quattro di Liverpool esistessero ben prima di approdare alla Parlophone, avessero alle spalle una lunga gavetta di concerti e avessero messo su un repertorio alquanto nutrito di cover dei più importanti brani rock’n’roll e rhythm&blues americani del tempo (molti dei quali poi incisi su disco): si erano cioè già esibiti in centinaia e centinaia di concerti in Inghilterra e in Germania, tra cui i 281 live ad Amburgo e i ben 292 al Cavern Club di Liverpool (luogo nel quale verranno poi notati dal loro super manager, Brian Epstein). Non esattamente una boyband insomma, ma una formazione abbastanza navigata che dalle maglie dello skiffle si era pian piano inserita in quelle del rock’n’roll per poi essere destinata a superarle aprendo le porte, sullo schiudersi dei Settanta, alle sontuose sonorità dell’art rock.

Ecco perché i paragoni sono sempre inopportuni caro Manuel: faresti bene a crederti di più quando affermi di non volerne fare.

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