Se il piatto forte della prima legge di Bilancio del governo Draghi sarà il fisco, nella forma di un primo taglio dell’Irpef, il capitolo politicamente più caldo è quello che riguarda il reddito di cittadinanza. Nel consiglio dei ministri di martedì pomeriggio sul Documento programmatico di bilancio arriverà solo un segnale mirato a sedare i maldipancia di centrodestra e Italia viva, che hanno appena digerito a fatica un rifinanziamento da 200 milioni di euro e ora devono dare via libera a uno stanziamento di quattro-cinque volte tanto, necessario per garantire anche nel 2022 una media di 570 euro al mese agli attuali 1,4 milioni di nuclei beneficiari. Si parla di un rafforzamento dei controlli preventivi, mettendo a disposizione dell’Inps banche dati a cui ora non può accedere, e di un taglio dell’assegno in caso di rifiuto della seconda offerta di lavoro congrua. Ma le modifiche sostanziali alla misura voluta dal Movimento 5 Stelle saranno inserite nella manovra più avanti: si aspetterà la relazione del Comitato per la valutazione del reddito istituito dal ministro del Lavoro dem Andrea Orlando e guidato da Chiara Saraceno, in arrivo entro l’inizio di novembre. Immaginarne i contenuti è comunque agevole: del gruppo fanno parte l’ideatore dell’Alleanza contro la povertà Cristiano Gori e la sociologa Nunzia De Capite che per Caritas hanno curato rispettivamente il monitoraggio sul rdc di luglio e il capitolo del rapporto 2021 sulla povertà dedicato alle proposte di modifica per rendere il sussidio più efficace nel raggiungere le persone in povertà e più funzionale all’attivazione dei percettori in grado di lavorare (che sono comunque una minoranza).

Il boom di beneficiari e l’aumento dei costi – Le valutazioni politiche sul restyling non possono prescindere dai dati. Lo scorso anno la pandemia ha gonfiato come mai era accaduto prima il numero dei poveri assoluti, saliti a 5,6 milioni. Il reddito, come riconosciuto da Orlando, ha contribuito a tamponare l’emergenza sociale arrivando a raggiungere nel 2020 oltre 3,5 milioni di persone contro i 2,5 milioni del periodo pre Covid. Con relativo aumento della spesa, che quest’anno non ha accennato a calare a dispetto della ripresa economica e della normalizzazione del quadro sanitario grazie ai vaccini. Perché chi durante la crisi ha perso un lavoro precario, o pur lavorando guadagna talmente poco da essere a un passo dall’indigenza, continua ad arrancare nonostante il pil corra. Il risultato è che nel 2021 sono stati necessari 1,4 miliardi di stanziamenti aggiuntivi rispetto ai 7,4 miliardi previsti nella legge di Bilancio 2019, portando la spesa complessiva a 8,8 miliardi. Per l’anno prossimo i fondi già a bilancio ammontano a 7,6 miliardi: a parametri invariati, in manovra occorrerà stanziare circa un miliardo.

Le modifiche chieste da Caritas: extracomunitari, residenti al Nord, nuclei numerosi – Andare oltre appare improponibile. Eppure la coperta è ancora corta: secondo Caritas il 56% delle famiglie in povertà assoluta resta escluso dalla misura. Colpa di parametri di accesso che penalizzano chi risiede al Nord (a parità di componenti e di reddito una famiglia che vive a Milano è più povera di una che sta in provincia di Crotone), chi aveva messo via qualche risparmio (il tetto è di 6mila euro per il capofamiglia più 2mila per ogni componente aggiuntivo) e tutti gli extracomunitari che risiedono in Italia da meno di 10 anni. Non solo: le famiglie numerose sono penalizzate rispetto ai percettori single. Come rimediare senza far esplodere i costi? La soluzione è relativamente semplice, spiega nel Rapporto 2021 su povertà ed esclusione sociale la responsabile Politiche sociali di Caritas Nunzia De Capite, che siede nel comitato guidato da Saraceno. Basta allargare le maglie per le famiglie straniere e per quelle residenti al Nord, innalzare le soglie del patrimonio mobiliare e adottare una scala di equivalenza non discriminatoria verso le famiglie più numerose ma al tempo stesso restringere i paletti su altri fronti: per esempio abbassare le soglie per i single e le coppie. A luglio il professor Cristiano Gori, responsabile scientifico dell’ultimo Rapporto Caritas sulle politiche contro la povertà dedicato interamente al reddito, facendo le stesse proposte ha messo in evidenza che “i nuclei più piccoli sono quelli per i quali si spende di più e allo stesso tempo comprendono la maggior parte di beneficiari non in povertà“: i single costituiscono il 46% dei percettori non poveri, le coppie il 21%. La modifica dovrà ovviamente tener conto dei paletti politici, come la richiesta del M5s di non scendere in ogni caso sotto i 500 euro.

L’incrocio con l’assegno unico per le famiglie – De Capite, più in generale, chiede di tener conto che il reddito fa parte di un mosaico di misure per le persone in condizioni di disagio economico e va armonizzato con le altre, come ha ribadito l‘Ocse nell’ultimo rapporto sull’Italia. Cruciale in questo senso sarà l’entrata a regime, nel gennaio 2022, dell’assegno unico per le famiglie, che avvantaggerà i nuclei numerosi compensando almeno in parte la scala di equivalenza molto svantaggiosa che assegna a una coppia con tre bambini solo 1000 euro di reddito (al netto del contributo per l’affitto). Nella stessa logica vanno potenziati i servizi sociali locali e il welfare territoriale, assumendo assistenti sociali e personale amministrativo. Anche perché spetta a questi servizi la presa in carico della stragrande maggioranza di beneficiari del reddito – due terzi – che per età, motivi di salute o livello di istruzione non è ritenuta in grado di trovare un lavoro.

Il reinserimento nel mondo del lavoro: governo studia il décalage – Resta poi il fronte più divisivo e discusso, quello che ha originato fake news e polemiche sul presunto (e smentito dai dati) “effetto divano” del reddito: il reinserimento al lavoro di quegli 1,15 milioni di beneficiari che l’Anpal considera occupabili. Oltre al potenziamento dei controlli, uno degli interventi allo studio del governo è la riduzione dell’aiuto in caso di rifiuto di due offerte di lavoro: un décalage che dovrebbe scoraggiare comportamenti opportunistici e sarebbe destinato a entrare in vigore l’anno prossimo insieme al piano Garanzia di occupabilità dei lavoratori, l’attesa riforma delle politiche attive. Va detto però che Caritas e Alleanza contro la povertà – così come la professoressa Saraceno – suggeriscono di adottare un approccio diverso, meno punitivo: consentire il cumulo almeno parziale tra sussidio e reddito da lavoro, come avviene in Francia e Gran Bretagna. Oggi, se il beneficiario inizia a lavorare il 100% del suo reddito da lavoro finisce nella successiva dichiarazione Isee, con il risultato che l’incremento dei suoi introiti viene interamente “mangiato” dalla tassazione.

Le ipotesi di modifica alla definizione di offerta congrua – Modificare questo aspetto renderebbe più accettabile spostare verso il basso – come ha ipotizzato Orlando – l‘asticella che definisce quali offerte sono da ritenersi “congrue” e vanno quindi conteggiate nelle tre dopo le quali scatta la decadenza. Con le regole attuali occorre innanzitutto che il lavoro sia in un raggio di 100 chilometri se si tratta della prima offerta e si riceve il beneficio da meno di un anno (250 km se è la seconda offerta o si è percettori da oltre un anno), poi che l’incarico duri almeno tre mesi e che il salario sia superiore agli 858 euro al mese, condizioni non scontate nel mercato del lavoro italiano. Poter sommare sussidio e stipendio, almeno per un po’, eviterebbe che per ridurre la platea dei percettori si finisca per allargare quella dei working poor.

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