“Mi sento come i vignettisti di Charlie Hebdo, solo che loro non sono stati lasciati soli dopo l’attentato terroristico, io sì”. Khaliq Dad Alizada ha 45 anni, una moglie e due figlie. È di etnia hazara, la minoranza sciita da sempre perseguitata in Afghanistan. “I Talebani vanno casa per casa a cercarci. Hanno una lista con tutti i nomi delle persone che hanno collaborato con gli alleati. Io per di più sono hazara, quindi non ho speranze”. Fino a qualche settimana fa, Khaliq si guadagnava da vivere disegnando vignette satiriche per diversi giornali afghani. Bersaglio principale del suo lavoro erano i Talebani e per questo ora teme per la propria vita e per quella dei suoi cari. “Le mie vignette erano molto forti, lo so, ma questa è la satira, voi lo sapete meglio di me – dice a Ilfattoquotidiano.it – In ogni momento della mia vita, rischio di essere catturato e torturato, proprio come è accaduto a Khasha Zwan”. Khaliq si riferisce al comico afghano torturato e ucciso dai Talebani dopo la presa di Kabul. Nel video del suo arresto, si vede Zwan stretto tra due miliziani talebani mentre uno dei due gli rifila degli schiaffi. Quel video straziante ha fatto il giro del mondo, provocando reazioni di indignazione e sconcerto da parte di tutta la comunità internazionale. Ma nulla di più. “Ho visto anche io quel video. Ricordo ancora il volto di Zwan mentre veniva caricato sulla macchina e poi picchiato. Non lo dimenticherò mai. In quei momenti ho avuto i brividi pensando che io potevo essere al suo posto”, dice l’artista afghano dal luogo in cui si nasconde.

Nonostante vari tentativi di fuga da Kabul dopo la conquista della capitale afghana da parte degli studenti coranici, Khaliq è rimasto bloccato lì, sebbene abbia lavorato in progetti di collaborazione con l’Isaf, la missione Nato nel Paese. “Mi sento tradito da quella comunità internazionale con cui ho lavorato in tutti questi anni. È come se ci avesse venduto ai terroristi, abbandonandoci in un vero e proprio mattatoio”. Khaliq non vive a Kabul, si nasconde a Kabul e, come tante altre persone nella sua stessa situazione, giornalisti, attivisti per i diritti umani, politici e persone appartenenti a minoranze etniche, cerca di farsi notare il meno possibile con ogni espediente. “ Non sto mai nello stesso posto per più di due giorni perché loro vanno a cercare casa per casa chi ha collaborato con le forze internazionali e quando mi muovo – continua – indosso un burqa così da non essere riconosciuto. Se indosso il burqa, loro non mi possono scoprire”.

Le vignette che Khaliq disegnava ritraevano i barbuti spesso in posizioni sessualmente esplicite o in situazioni violente in cui venivano malmenati. “Ritrarre i Talebani in questo modo, con i genitali in bella vista o mentre vengono sodomizzati e malmenati, era un modo per ridicolizzarli, per fare capire al popolo che non doveva averne paura, ma al contrario ridere di loro”, spiega.

A un mese dal ritiro rovinoso e frettoloso delle forze alleate da Kabul, centinaia di civili che hanno collaborato con la comunità internazionale in Afghanistan, sono ancora bloccati in quel mattatoio. Lo scorso 19 settembre, in una conferenza stampa, Qari Mohammad Yousuf Ahmadi, il direttore ad interim del Government Media and Information Centre (Gmic), ha annunciato l’istituzione delle “11 regole del giornalismo”. “Decise senza alcuna consultazione con i giornalisti, queste nuove regole sono agghiaccianti per l’uso coercitivo che se ne può fare e sono di cattivo auspicio per il futuro dell’indipendenza e del pluralismo giornalistico in Afghanistan”, ha detto Christophe Deloire, segretario generale di Reporters Sans Frontières, in un comunicato stampa rilasciato dall’organizzazione. Ciò che contraddistingue queste regole sono ambiguità e genericità e questo lascia aperta la possibilità agli Studenti coranici di interpretarle in maniera del tutto arbitraria. Secondo quanto affermato in conferenza stampa, infatti, nel nuovo Emirato Islamico i giornalisti non possono pubblicare storie che siano “contrarie all’islam”, non possono “insultare le figure nazionali” o violare la “privacy”. Cosa quest’ultima che vuol dire tutto e vuol dire niente, se non adeguatamente precisata. Come spiegato da Reporters Sans Frontières, tra le regole imposte, così come enunciate, ci sono principi che apparentemente sembrerebbero ricalcare i cardini della democrazia. Secondo quanto stabilito, infatti, i giornalisti devono conformarsi a quelli che sono intesi come principi etici. Devono “cercare di non distorcere il contenuto delle notizie”, “rispettare i principi giornalistici” e “assicurare che le loro notizie siano equilibrate”. Ma, come denuncia l’ong , “l’assenza di riferimenti a norme internazionali riconosciute significa che queste regole possono anche essere usate male o interpretate arbitrariamente”. Tutte le promesse iniziali di rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali, dunque, sono state disattese. “Non posso più stare a Kabul – dice Khaliq -, temo per la vita dei miei figli. La comunità internazionale e quella giornalistica non può abbandonarci in questo inferno”.

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