Era una bella mattina di cielo terso e sereno, a Washington e a New York: l’11 settembre 2001, andai a prendere a Wesley Hights il primo autobus, quello delle donne delle pulizie dei palazzi downtown. I corrispondenti dall’America si alzano presto, perché le 6 del mattino lì sono già le 12 in Italia. Ero un po’ in ansia: la sera prima, mia figlia Chiara era partita da Washington per rientrare all’Università, a Roma, e aspettavo la chiamata del “Sono a casa”.

Alle 06.00, mentre io salivo sul mio bus, i dirottatori erano già in moto per prendere i loro aerei. Nulla lasciava ovviamente presagire quel che nessun americano aveva mai pensato fosse possibile, o che tutti gli americani avevano dimenticato fosse possibile: gli Stati Uniti attaccati sul loro suolo, un po’ come avvenne il 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor. Ma questa volta l’attacco arrivò al cuore dell’America: non una base alle Hawaii, ma la città icona e la capitale federale, New York e Washington, rispettivamente i simboli del potere economico-finanziario, il World Trade Center, e del potere politico-militare, il Pentagono e forse il Campidoglio (se l’aereo caduto in Pennsylvania fosse andato a segno come gli altri).

L’ufficio dell’Ansa di Washington è a due isolati dalla Casa Bianca: passai come al solito mezz’ora al telefono con i colleghi di New York, per fare il programma di lavoro della giornata, poi preparai la nota da mandare a Roma, alla sede centrale. Quando la Cnn diede la prima notizia, un aereo si era schiantato contro una delle Torri Gemelle, e trasmise la prima immagine – lontana e sfocata, un filo di fumo che usciva dalla torre colpita -, la collega Alessandra Baldini mi avvertì e mandò il nostro primo dispaccio: non avemmo subito percezione della dimensione del fatto, poteva essere un aereo da turismo, poteva essere un incidente. Il secondo schianto, in diretta televisiva, diede la certezza dell’attacco e cominciò a delinearne le dimensioni.

L’11 Settembre 2001 divenne uno di quei giorni perno, nei percorsi personali – dai 6 anni in su, tutti ci ricordiamo dove eravamo e che cosa facevamo quando le Torri vennero giù -, professionali, socio-politico-istituzionali: vivemmo tutti – più o meno da vicino – un pezzo di storia, ne fummo coinvolti e ce ne rendemmo conto. E iniziò la cantilena del “nulla sarà mai più come prima”, mentre l’Unione si riempiva di bandiere e ogni città del nostro Mondo aveva un suo sacrario di lumini dove la gente si riuniva e cantava in coro ‘America the Beautiful’. Chi l’avrebbe mai detto che, vent’anni dopo, il ‘gioco dell’oca’ delle scelte di comodo e il risiko della geo-politica ci avrebbero riportati alla casella di partenza.

L’America commemora il XX anniversario dell’11 settembre: il primo ‘di pace’, cioè senza la guerra in Afghanistan lanciata, neppure un mese dopo gli attentati, contro al-Qaida (e il regime dei talebani che l’avevano ospitata e protetta) e destinata a divenire il più lungo conflitto della storia Usa – e uno dei più disastrosi, nel suo epilogo. Sulla ricorrenza, s’allunga così l’ombra dai risvolti inquietanti della crisi afghana sulla nostra sicurezza. Generali e 007, che non ne azzeccano molte di recente, avvertono: il terrorismo potrebbe “risorgere” nell’area.

La fine della guerra in Afghanistan, una Caporetto dell’Occidente, ridisegna la mappa geo-politica del XXI Secolo: la Cina continua ad accrescere la propria influenza, economico-commerciale e politico-militare; e la Russia torna a essere protagonista, con Vladimir Putin che si ritaglia un ruolo da grande saggio – “Guardate che cosa succede a voler imporre ad altri i propri modelli” -; gli Usa escono ridimensionati, ma riducono le proprie ambizioni di superpotenza globale e di ‘poliziotto del mondo; alcuni attori regionali, come la Turchia e il Pakistan, sgomitano perché vogliono acquisire visibilità, come già facevano, tra Golfo e Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita.

L’Unione europea? Sul Corriere della Sera, Franco Venturini la vede al bivio tra autonomia strategica e irrilevanza globale; ma, in realtà, a parte discorsi e appelli retorici, non si vedono progressi verso una politica estera e della difesa comune, senza le quali l’Ue potrà magari continuare a essere un gigante economico-commerciale, ma non sarà un’entità rilevante sulla scena internazionale e della sicurezza. Micragnosa e sovranista in molte sue componenti nazionali e politiche, l’Unione fa fatica ad esprimere anche solo una volontà di solidarietà.

Già uscita mortificata dalla crisi siriana, l’Ue rischia di esserlo pure da quella afghana: oggi siamo tutti afghani, come nel 2015 eravamo tutti siriani; ma poi ‘affittammo’ milioni di profughi alla Turchia e ora ci proviamo con il Pakistan o il Tagikistan; e ce ne laviamo le mani, pagando per non essere disturbati a casa nostra. Pilato 2020, con tanti saluti ai diritti umani e alle radici cristiane, che proprio gli ostili alla solidarietà sbandierano con più vigore.

Gli Stati Uniti di Joe Biden sono più attrezzati di quelli di George W. Bush di fronte al terrorismo? Sono più consapevoli, perché ci sono passati; e più sensibili al pericolo. Ma sono anche un Paese più diviso, che dal crollo delle Torri e dai pantani imbevuti di sangue dell’Afghanistan e dell’Iraq, dagli abomini del Patriot Act con Guantanamo, Abu Graib, il waterboarding, le renditions, ha prima tirato fuori la grande speranza di Barack Obama e quindi il fiele del suprematismo e delle menzogne di Donald Trump e dei suoi accoliti, la diffusione di teorie cospirative e negazioniste, il tracollo della fiducia nelle istituzioni.

Adesso, c’è Biden: pure lui è un ritorno alla casella di partenza.

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