Ci volevano le Olimpiadi per ricordarci che siamo umani. E in quanto umani dotati di una psiche, che, lo si voglia o no, ha un ruolo fondamentale in tutte le sfaccettature della nostra vita.

Che poi si decida di porla solo nel cervello, in forma “modaiola-meccanicistica”, o si voglia volare verso le pendici dell’anima, che poi pare avere parecchie similitudini con la coscienza dei neuroscienziati, sta di fatto che la nostra interiorità, il modo in cui viviamo la nostra vita, la prospettiva dalla quale guardiamo il mondo, le emozioni che tratteniamo, i nodi, gli irrisolti che ci bloccano o l’energia vitale che si libera dall’affrontarli fanno la differenza nella qualità della nostra esistenza.

E a dichiararlo non sono professionisti del settore, ma i loro pazienti, o i loro coaches, come si dice all’americana, gli atleti olimpici che hanno dimostrato che si vince nello sport anche grazie alla centratura mentale e all’equilibrio emotivo.

Se da un lato fa piacere che almeno loro lo dichiarino – loro, i campioni olimpici, come gli italiani Jacobs o Tamberi, sportivi che a quanto pare sono rimasti, se non gli ultimi, i pochi a incarnare l’archetipo dell’eroe, magari insieme a grandi medici come il compianto De Donno – dall’altro lato duole notare che da due anni a questa parte la salute mentale, insieme a quella dell’età evolutiva, sono state le grandi dimenticate dell’emergenza sanitaria. Due povere Cenerentole, la salute mentale e la tutela dei piccoli, in mezzo a sorellastre virologhe, infettivologhe, igieniste e anche tuttologhe, e per giunta senza neppure la provvidenziale Fata ancorché Smemorina con incantesimo a tempo.

E a renderlo evidente non sono solo le statistiche del peggioramento generale dei pazienti già in carico, dell’incremento dei Tso, dei suicidi, delle dipendenze, degli abusi, e nemmeno i numeri dei nuovi casi di depressione, disturbi d’ansia, disturbi post-traumatici da stress, incremento generalizzato ed evidente dell’aggressività, figlia inevitabile della paura e dell’odio e della infodemia mediatica di tutti i tipi, ma la pratica clinica quotidiana sul campo. E allora ben vengano gli eroi olimpici a permettere di sottolineare, oltretutto sull’onda della gioia per i loro successi, quanto la vita interiore sia fondamentale per quella esteriore, materiale, oggettiva, fattuale, che sembra costituire per molti sempre più l’unica realtà.

L’emergenza sanitaria non è solo emergenza epidemiologica, è anche emergenza psicologica, emotiva, sociorelazionale. Distanziamento, confinamenti, quarantene, terrore, conflitti d’opinione e di pensiero stanno minando la salute mentale degli individui più di quanto forse non si pensi e avrebbero meritato, meritano e continuerebbero a meritare una attenzione e una tutela assai più solerti.

Non si vince un oro senza aver respirato liberi dai nodi emotivi, dice Marcell Jacobs insieme alla sua coach Nicoletta Romanazzi, non si uscirà da questa pandemia senza essersi presi cura anche di come la stiamo vivendo emotivamente, di come sta cambiando la nostra società, le nostre abitudini, relazioni, senza fermarsi a riflettere sulla strada che stiamo percorrendo, senza pensare con la nostra mente a quel che viviamo.

Ma le Olimpiadi di quest’anno ci mostrano un’altra lezione di umanità, forse ancora più basilare di quella sulla psiche: si chiama potere della condivisione. Tamberi e Barshim scelgono di condividere l’oro. E la cosa più interessante, riportata dalle cronache, è che si trattava di una possibilità mai verificatasi, ma, alla richiesta dei due atleti, risultata possibile. La via dell’umanità, che è condivisione, non separazione, non è sempre la più evidente o la più comune, non è quella che d’abitudine si segue in una competizione, e soprattutto, richiede la scelta di interrogarsi su quella possibilità e poi decidere di seguirla. Ma il risultato è una doppia celebrazione, una doppia vittoria, una doppia felicità.

Nella peste che il Manzoni non aveva vissuto, ma su cui si era minuziosamente documentato, come in quella che invece il Boccaccio aveva ben visto e sperimentato perdendo anche amici e congiunti, quel che spicca atrocemente è la perdita di umanità. Secoli di Olimpiadi, per le quali nell’antica Grecia si sospendevano anche le guerre, e che poi Pierre De Coubertin volle ricreare proprio per favorire la salute dei giovani e l’incontro tra i popoli, forse ci ricordano che i veri atleti, come i veri esseri umani, un cuore ce l’hanno, ben piantato in mezzo al corpo, e lo usano, non solo per scrivere le poesie, ma per vivere.

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