Ci sono voluti anni per dimenticare quell’odore. Tornava a tormentarla spesso. Soprattutto di notte. Si infilava su lungo le sue narici e scendeva giù nello stomaco. Fino a contorcerglielo. Fino a riempire i suoi occhi di lacrime. I giorni insipidi sono i più crudeli. Scivolano via veloci. E nascondono i pericoli nelle pieghe dell’indifferenza. Ana Fidelia Quirot l’ha capito il 23 gennaio 1993. Un pomeriggio come tanti. Almeno in apparenza. Ana stava preparando qualcosa da mangiare sul fornello della cucina quando la sua vita è cambiata per sempre. Prima ha sentito uno scoppio. Poi ha visto le fiamme protendersi in avanti. Un centimetro dopo l’altro. Fino a inghiottirla. L’unica cosa che ricorda è quell’odore. Pelle bruciata e cherosene che diventano una cosa sola, causa ed effetto che si mescolano insieme. E poi un dolore osceno, quasi perverso. Il suo corpo brucia insieme alla sua stessa vita.

L’ambulanza arriva subito. La sua corsa è disperata, è pura ostinazione, questione di principio. La sputa fuori davanti all’ingresso dell’ospedale Hermanos Ameijeiras. Una barella bianca che avanza fra facce stravolte. La diagnosi assomiglia più a una sentenza. Nessuno crede che quella donna ce la farà. In quel momento Ana Quirot è una delle grandi stelle dell’atletica internazionale. Ma è anche un biglietto da visita per Cuba. Le sue vittorie sono le vittorie di Fidel Castro. I suoi successi quelli di un’isola intera. Fra il 1987 e il 1990 ne ha messi in fila 39, uno dietro l’altro. Nei 400 metri. Negli 800 metri. Poi alle Olimpiadi di Barcellona 1992 si era infilata al collo la medaglia di bronzo. Un successo che diventa un rimpianto. Perché senza quel problema all’adduttore forze il metallo sarebbe stato più prezioso.

La voce dell’incidente si diffonde rapidamente. Vola di bocca in bocca. Riempie schermi, annerisce pagine di giornale. Fino a quando non si trasforma in notizia. Ana Quirot ha ustioni di terzo grado sul 38% del corpo. Sullo stomaco. Sul collo. Sulle braccia. I medici la portano in sala operatoria. Poi la avvolgono nelle garze. Solo che nessuno ha il coraggio di darle la notizia. Perché Ana Quirot era incinta. Di sette mesi. Aspettava una bambina da Javier Sotomayor, l’uomo che per quasi due decenni ha trasformato il salto in alto in affare privato. I medici l’hanno fatta partorire, ma non c’erano grandi speranze. Le fiamme avevano provocato gravi lesioni al cervello della bambina. E la sua vita è durata appena qualche giorno.

Fidel Castro va a trovare Ana. Più che un letto il suo sembra l’ultimo capezzale. La donna guarda il Lider Maximo e poi domanda: “Potrò tornare a correre?”. Castro sorride e non risponde. Perché i medici sono stati chiari: “Bisogna pensare a non morire”. L’avversario peggiore diventa lo specchio. La Quirot si guarda e resta sconvolta. “Appena mi sono vista – dirà una toccante intervista a Emanuela Audisio – ho subito dimenticato tutte le promesse che avevo fatto a me stessa. Ero solo un brutto mostro. Non riuscivo a chiudere le mani, non riuscivo ad alzare le braccia, non ce la facevo nemmeno a pettinarmi. Avevo 29 anni. Mi sono messa a urlare: ai medici, a mia madre, alle mie sorelle. Piangevo e gridavo: dovevate farmi morire”. La terapia è tremenda. Le viene innestata pelle artificiale per coprire le ustioni. Le operazioni si susseguono. Una, due, tre. Fino ad arrivare a sette. Sembra di vivere in “Un’aquila nel cielo” di Wilbur Smith.

“Ma questa è comunque pelle mia – racconta nella stessa intervista – Mi hanno prelevato dei lembi dalle spalle e dalle braccia. In genere la prendono dalle gambe, ma io non ho dato il permesso. Almeno le gambe dovevano lasciarmele com’erano prima”. Con Sotomayor finisce lì. Insieme alla sua prima vita. Ana Fidelia Quirot non è più il simbolo della rivoluzione di Castro. Ora deve pensare prima di tutto a sé stessa. Si lascia alle spalle tutto. Basta con la ragazzina di Santiago de Cuba, figlia di un calzolaio e di un’impiegata di un cinema che si portava dietro quel soprannome. La chiamavano la gorda. La grassona. Anche se il suo corpo sprigionava grazia e potenza insieme. Anche se sembrava pattinare sulla pista.

Ora la sua rabbia non è veleno. È energia. Quattro mesi dopo l’incidente torna in pista. Di sera. Perché le sue ferite non possono guardare direttamente i raggi del sole. Corre per qualche minuto. Fino a quando la pelle non inizia a bruciarle nuovamente. Sembra un marchio indelebile. Invece è una transizione. Quattro mesi dopo è ancora in pista. Stavolta ai Giochi del Centro America. Gareggia negli 800 metri. E arriva seconda. È un risultato che va oltre la medaglia. Perché lancia un messaggio: le fiamme non hanno distrutto Ana. L’hanno solo trasformata. “Non penso più a quel giorno – confida nel 1995 ad Audisio – Un incubo che non serve. E io non credo in Dio, né vado in chiesa. Penso che nel mondo c’ è tanto dolore e sofferenza, e guardate a tutti i guai che ha Cuba, alle cose che ci mancano, ma abbiamo una medicina speciale. E insomma è inutile chiedersi perché, ma la vita non può essere perfetta. È inutile lamentarsene, quello che dobbiamo imparare è ad aiutare gli altri, a capire che non soffri solo tu. Io ho 32 anni, voglio arrivare alle Olimpiadi di Atlanta e poi basta. Smetto”.

Nel 1995 vince l’oro ai Giochi Centro Americani. Ancora. È il segnale che può ancora essere un’atleta di grande livello. La conferma arriva a luglio. In Italia. Nel meeting di Caorle prende il largo, arriva sorridente al traguardo. È tutto vero. Due anni dopo quell’esplosione è ancora viva. È ancora un’atleta di prima fascia. Il Mondiale di Goteborg diventa una tappa obbligata. “Andrò in Svezia unicamente per dimostrare di essere ancora fra le migliori mezzofondiste del mondo – dice a fine gara – La mia battaglia, quella con la vita, l’ho già vinta. Ho lottato due anni fra interventi, cure e allenamenti. Non so quali siano i miei limiti in pista ma vorrei solo dimostrare di essere ancora io”.

Ci riuscirà. I Mondiali trasformano la sua storia in leggenda. Anche perché l’avversaria più forte, Maria Mutola, viene squalificata per aver invaso un’altra corsia. “Mi dispiace – dice Quirot – Era stata l’unica a venirmi a trovare in ospedale”. Senza la mozambicana è un’altra storia. Ana vince l’oro. E aggiorna il concetto di rivincita. Nel 1996 partecipa ai Giochi di Atlanta. Arriva seconda, dietro Svetlana Masterkova. Ma non basta. Ana non tiene fede al suo giuramento. Non si ferma. Continua a correre. Continua a chiedere sforzi al suo corpo in cerca della certezza che il peggio è ormai alle spalle. Nel 1997 i Mondiali si svolgono ad Atene. La Quirot è ai blocchi di partenza degli 800 metri piani. A metà gara è terza. Non le basta. Spinge forte sulla gambe, il suo respiro si comprime. Le altre non possono far altro che guardarla avanzare e rassegnarsi. Alla fine taglia il traguardo per prima. Con le braccia alzate. È oro, ancora. Quella di Atene è l’ultima notte felice della sua carriera. Non fa niente. Perché la sua vita va sempre più avanti. Oltre il fuoco. Oltre il dolore. E adesso anche oltre l’atletica.

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