Per la gloria eterna, certo. Ma anche per il portafoglio. Un olimpionico vale tanto. Soprattutto un olimpionico italiano: fino a 180mila euro (lordi) per un oro, 90mila per l’argento, “solo” 60mila per il bronzo che si dice sia meglio di un secondo posto alle Olimpiadi. I medagliati azzurri saranno tra i più “ricchi” dei Giochi di Tokyo: nessuno in tutto il mondo dello sport occidentale paga quanto l’Italia, che spenderà in totale più di 5 milioni di euro di soldi pubblici (se i risultati andranno bene come tutti si augurano).

Non è una novità: la polemica (se ce n’è una) si ripropone ogni quattro anni. I lauti premi agli atleti italiani. Sempre troppi soldi o troppo pochi, questione di punti di vista, se paragonati agli stipendi del Paese reale o ai veri paperoni dello sport. All’opinione pubblica non sta mai bene. Una cosa è certa: i trionfi azzurri per cui ci entusiasmeremo davanti alla tv in queste due settimane alle Olimpiadi costeranno milioni allo Stato. Per la precisione, 6,5: tanto ha stanziato il Coni di Giovanni Malagò (fondi ovviamente pubblici) in previsione dei podi attesi a Tokyo. Una cifra superiore anche a Rio 2016 (allora il Comitato aveva saldato 5,4 milioni di premi), visto che le quote sono state aumentate del 20%, dopo quattro edizioni a livelli invariati.

Nel panorama mondiale è difficile trovare premi più alti. Soltanto piccoli Stati ricchissimi, per cui una medaglia olimpica è un evento, o repubbliche poco democratiche dove lo sport è una componente fondamentale della propaganda governativa, hanno previsto cifre maggiori: 250mila dollari per un oro di Kazakhstan o Azerbaijan, 650mila ad Hong-Kong, addirittura un milione di dollari a Singapore. Ma in tutti i Paesi del mondo occidentale i premi sono molto più bassi: 65mila euro in Francia, circa 20mila in Germania, anche negli Stati Uniti l’oro è pagato circa 35mila dollari, il Regno Unito addirittura non prevede riconoscimenti economici speciali per i medagliati.

Queste cifre, che già in passato avevano attirato delle critiche per la presunta eccessiva generosità nei confronti degli atleti italiani, vanno però inquadrate nel giusto contesto. Innanzitutto, quello fiscale: il premio italiano è tassato con un’aliquota molto alta (al 42%), cosa che altrove non succede, dunque al netto si riduce per l’oro a 80-90mila euro (e il resto rientra allo Stato come gettito). Soprattutto, ha un peso specifico molto diverso a seconda delle varie discipline. I professionisti guadagnano già tanto durante la stagione (e per loro forse il tema esiste), ma fra gli olimpionici pochi rientrano in questa categoria. I calciatori ovviamente (ma l’Italia nemmeno si è qualificata a questa edizione), basket e pallavolo (ma non tutti si chiamano Gallinari e Zaytsev), i ciclisti, alcuni nuotatori come la “divina” Federica Pellegrini che macina sponsor e contratti.

La maggior parte dei campioni che tengono alto il tricolore ai Giochi, però, sono protagonisti dei cosiddetti “sport minori”. E per quella che è la peculiarità del sistema sportivo italiano, sono quasi tutti “militari”, affiliati cioè ai vari gruppi sportivi delle forze armate, dove entrano per concorso e percepiscono lo stipendio di un comune dipendente. La busta paga cresce negli anni con gli scatti di anzianità e la certezza del “posto statale” è impagabile. A volte si possono aggiungere finanziamenti federali, borse di studio e qualche sponsor (ma con i limiti previsti al personale statale), ma rimaniamo lontanissimi dai livelli raggiunti dai paperoni dello sport. Mentre all’estero, dalla Francia all’Inghilterra, per non parlare di Stati Uniti, il sistema è strutturato in modo molto diverso, esiste un professionismo più spinto e girano anche più soldi. Così per tanti atleti italiani il premio per un podio ai Giochi diventa il coronamento, anche economico, di una carriera di sacrifici. Poi, si sa, un oro olimpico non ha prezzo.

Twitter: @lVendemiale

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