“Il lapidario divieto di aiutare taluno a procurarsi la morte, contenuto nella norma coniata in un periodo storico risalente in cui lo scopo unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo di dolore acutissimo e senza fine”. Sono le parole messe nero su bianco dalla Corte di Appello di Genova, che in questo modo conferma su tutta la linea la tesi difensiva di Marco Cappato e Mina Welby. I giudici liguri hanno depositato le motivazioni della sentenza che aveva confermato, a seguito dell’udienza del 28 aprile scorso, l’assoluzione in primo grado dei due imputati, prosciolti per i reati di istigazione e aiuto al suicidio per l’assistenza fornita a Davide Trentini, malato di sclerosi multipla cronica progressiva, che raggiunse la Svizzera per ricorrere al suicidio assistito. “Legittima era l’aspirazione alla conclusione della vita, lecito dunque era il suicidio assistito“, scrivono i giudici.

“Una sentenza chiara, incontrovertibilmente incentrata sulla scelta di libertà del malato. Una decisione che accoglie tutte le motivazioni della difesa di Marco Cappato e Mina Welby, che segna un importante passo in avanti sul tema. Nel testo leggiamo motivazioni che centrano il senso del rispetto della libertà personale inviolabile, del concetto di dignità di Davide Trentini, della sua scelta. Tutti diritti costituzionalmente rilevanti che subiscono il vuoto di affermazione determinato dallo Stato che non è intervenuto per rimuovere gli ostacoli al diritto all’autodeterminazione”, dice l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni. “In attuazione della sentenza Cappato emessa dalla Corte costituzionale, la Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza di assoluzione di primo grado e ne ha arricchito le motivazioni in diritto ritenendo l’impugnazione proposta è infondata; la sentenza appellata merita conferma”, continua la legale.

Trentini, si legge nelle motivazioni della sentenza, “viveva una vita artificiale, fonte di insopportabile dolore fine a se stesso, perché la guarigione non sarebbe stata possibile, mentre la malattia sarebbe progredita sino a provocargli la morte in un giorno non definibile, ma certo”. E ancora: “Davide è sottoposto a trattamento terapeutico indispensabile per la sua sopravvivenza”, a prescindere dalla presenza o meno di macchinari, trattamenti di alimentazione artificiale e persino di evacuazione artificiale, la cui prova in giudizio è stata contestata, mentre durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado tale requisito è stato provato perchè è emerso che Davide Trentini assumeva farmaci di significato vitale, senza i quali non sarebbe sopravvissuto”, si legge ancora nelle motivazioni. Nel confermare la sentenza di assoluzione di primo grado appellata dal pubblico ministero del Tribunale di Massa nei confronti di Cappato e Welby, la Corte di Appello conclude nelle motivazioni scrivendo che: “Se Davide quindi aveva il diritto di interrompere tale terapia essenziale per la sua vita e di avviarsi alla morte, non gli può essere negato il diritto di rinunciare a vivere ancor prima di affrontare la brutale agonia che la sua gravissima malattia gli avrebbe imposto. Legittima era l’aspirazione alla conclusione della vita, lecito dunque era il suicidio assistito, poiché frutto dell’autodeterminazione del malato a congedarsi da una esistenza che non era più in grado di apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza”.

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