Mi sono tirata su piuttosto seccata, appena in tempo per vedere il tank e il camion passare di nuovo sul corpo schiacciato e straziato di Melanie e fermarsi davanti al secondo edificio. Due soldati sono scesi dal camion, sorreggendo una donna sull’orlo di una crisi isterica (…) Sono entrati tutti e tre. Non hanno tardato a uscire. I soldati non sorreggevano più la donna, che teneva tra le braccia un cagnetto ricciuto (…) I mezzi sono partiti in tromba, sono passati per la terza volta sul corpo ormai in poltiglia di Melanie per raggiungere gli altri. Sempre preceduti dal tank, i tre camion militari e i loro passeggeri bianchi sono usciti dall’Unhcr. Erano salvi”.

Johnny Mad Dog, di Emmanuel Dongala (traduzione di Monica Martignoni; Marotta&Cafiero Editori), è uno straordinario spaccato sull’orrore della guerra. Siamo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, in un imprecisato Paese dell’Africa (probabilmente la Repubblica Democratica del Congo, anche se un quartiere della capitale si chiama Kandahar e una milizia in lotta “i ceceni”) martoriato da una lotta intestina in cui si affrontano bande di bambini soldato che si ammazzano per niente e dove i pochi residenti bianchi cercano di fuggire in barba alle migliaia di profughi usati come vittime sacrificali.

Il romanzo, autentico, reale, cinico, si snoda attraverso la storia di Laokolé, una sedicenne che sogna di costruire case solide, come suo padre, e cerca la salvezza trasportando sua mamma, senza gambe, su una carriola, e quella del suo coetaneo, Johnny Mad Dog, assassino, stupratore, fuori di testa, che arraffa, uccide, si droga in compagnia degli altri giovani armati che lo affiancano alla ricerca di una impalpabile ed evanescente gloria da film hollywoodiano.

Il giorno seguente, la parola epidemia cominciò a risuonare in ospedale. All’inizio circolava in silenzio, il termine aleggiava negli animi inquieti dei medici. Poi, gradualmente, i dottori iniziarono a pronunciarlo fra loro e, in breve tempo, l’intero ospedale sussurrava quella parola a fior di labbra, dalle infermiere alle donne delle pulizie, dai visitatori agli sfaccendati che oziavano nei giardini trascurati. Epidemia, epidemia, epidemia”. Ebola ’76, di Amir Tag Elsir (traduzione di Federica Pistono; Atmosphere Libri), è il ritratto autentico e ironico di una delle più grandi tragedie che hanno scosso il continente africano: l’epidemia di Ebola del 1976.

Nonostante l’autore affermi che la sua sia un’opera di pura fantasia, nel romanzo seguiamo un operaio tessile, Lewis Nawa, che dopo essere stato a Kinshasa sulla tomba di Elanie, la sua amante, torna nella sua città, Nzara, città frontaliera del Sud Sudan, e con sé porta il virus letale. Lewis infetta sua moglie, i colleghi della fabbrica, i dottori dell’ospedale, l’amico Anami. Gli eventi storici si susseguono con un ritmo vertiginoso, le agonie dei singoli suscitano indifferenza, le attività dei mercati e dei bordelli devono andare avanti e si preferisce pensare ai sortilegi di uno stregone piuttosto che a un’epidemia devastante. Chitarristi ciechi, prostitute, ex guerriglieri diventati imprenditori, venditrici d’acqua, dottori di buona volontà formano un intreccio di storie. Ebola ’76 può essere visto come una magistrale rapsodia letteraria, che mette in luce, oltre a una spiazzante contemporaneità storica, le straordinarie qualità narrative di Amir Tag Elsir.

C’è un mucchio di posto sulla montagna. Perché doveva venire qui? I bianchi sono dei sacchi di merda. Osservo il fuoco e muoio dalla voglia di buttarci dentro un mostro, ma brucia lento e così lo lascio stare. Spero che se ne vada al mattino, penso. Posso trovarlo da solo, quel laghetto. Si fanno una fumata con te e credono di poterti fare e dire di tutto. Beh, fanculo, stronzo. Testa di cazzo. Tua madre è una succhia-culi. Il fuoco brucia (…) Domani nuoterò. Distruggerò quell’acqua (…) Mi raggomitolo per dormire. Il terreno è soffice. Non mi importa della terra fra i capelli. Il fuoco è la mia coperta”.

Tredici Centesimi, di K. Sello Duiker (traduzione di Sara Fruner; Marotta&Cafiero Editori), racconta la vita di Azure, bambino di strada di Cape Town con gli occhi azzurri che passa le giornate prostituendosi per pochi soldi, si lava in mare ed è terrorizzato dai piccioni. Con una scrittura cruda, allucinogena e visionaria, l’autore sudafricano mette nero su bianco gli incubi della metropoli, disegna le incomprensioni tra le varie etnie del “Paese arcobaleno”, tratteggia pestaggi, sniffate di colla, pompini, sporcizia, rabbia, incomprensione e gli strascichi dell’apartheid.

Tramonto rosso, di Pietro De Carli (Editrice GDS) racconta gli episodi salienti dell’esperienza diretta dell’autore. Tradizioni ancestrali, disgregazioni sociali, violenze, ingiustizie, sopraffazioni che si snodano in quindici anni di peregrinazioni tra Mozambico, Kenya, Sudan e altre nazioni dell’Africa sub-sahariana.

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