Da più di trent’anni siamo abituati a vederli sempre insieme: Aldo, Giovanni e Giacomo. Poi d’un tratto arriva Davide Ferrario, che prende Giovanni Storti, “er pignolo” avrebbe detto Carlo Croccolo, e lo mette alla batteria di una band anni ’70 oggi oramai sciolta e galleggiante, sì e no, nel dimenticatoio. Boys, titolo di questa commedia musicale e nome della band in questione, vede protagonisti con Storti Neri Marcoré, Marco Paolini e Giorgio Tirabassi. Poker d’assi inedito e completato dal “quinto Beatle”, il giornalista fan, un po’ pasticcione e un po’ impavido, che li convincerà a tornare insieme, Paolo Giangrasso.

Passano gli anni ma Ferrario sul piano del linguaggio filmico sta sempre un passo avanti con la sua ricercatezza estetica e concettuale. Quel suo inclinare inquadrature tratteggia qui la trasversalità tra giocosità brillante dei personaggi, nostalgia per i tempi andati e comune malinconia per il presente. Si prende il vezzo di citare affettuosamente le coreografie acquatiche proprio di Aldo, Giovanni e Giacomo e con i nostri eroi armati di amplificatori e furgoncino Volkswagen ci rigenera con un film coraggioso e terapico, dalle ambientazioni fluviali e nebbiose come certe copertine progressive di una volta.

I suoi non più boys, perfettamente amalgamati, lo aiutano in particolar modo in questa piccola impresa, peraltro musicata in soundtrack da Mauro Pagani. L’occasione di tornare al successo prende corpo con la featuring richiesta dall’ingombrante produzione del giovane trapper di turno, ovviamente in commercialissima ascesa. Così non si parla solo di amicizie ritrovate o rinsaldate, ma di senile riscoperta di sé. Però non manca una riflessione amara sul senso del mercato musicale odierno, che seziona spartiti passati facendone reef da iniettare asetticamente in nuove hit tutte synth, loop e autotune. Completano il cast una ritrovata Isabel Russinova e una discografica arrembante Giorgia Würth. Girato lo scorso anno principalmente a Torino, è nelle sale dal primo luglio.

Dal primo luglio in sala troviamo anche State a casa di Roan Johnson. Titolo che sembra già una contraddizione in termini visto l’attuale periodo di lotta per il ripopolamento dei cinema. Vuole graffiare con questa storiaccia Johnson. Stupire, colpire duro, si vede dalla palese citazione all’inizio iconico de L’Odio. Ma vuole anche nausearci un tantino, perché il gruppetto di ventenni che decide di raccontare durante il loro lockdown, isolati in quest’appartamento da studenti fuorisede, possiede una fiera e scivolosa ambiguità valoriale. Amicizie e velati tradimenti s’intrecciano come serpenti, soprattutto dopo la morte del loro padrone di casa, un Tommaso Ragno con fare perverso da strozzino.

Che dire, viva il cinema dei cattivi e delle carognate, quando questi hanno non solo un fluido senso narrativo, ma a patto che si avvolgano di fascino oscuro, empatia. Senza andare ai grandi villain, restiamo sui giovani Cassel e Koundé, de L’Odio, per esempio, truffaldini ed emarginati, eppure vinti con la loro umanità di periferia. Purtroppo questi ragazzotti del 2021, nelle angherie quanto nei momenti più scanzonati restano personaggi scialbi che forse dovrebbero rappresentare il fondo raschiato dei giovani d’oggi. In ogni caso poca energia, a parte il non-ragazzo Ragno, che però muore, e la quarta ragazza, una giovane somala più positiva dei tre, ma messa ovviamente a margine. Vuole ammiccare tra note di Trainspotting e cover di Achille Lauro, Johnson, ma il botto da Ultimo Capodanno è lontano. Il tutto ha una morale da non svelare perché incarna il finale. Ma se nel film c’è un serpente che a un certo punto si perde, metaforicamente la sfuggevolezza del rettile sembra proprio il collante con lo spettatore. Piacerà ai millennials?

Il 2 luglio escono invece alcuni titoli asiatici distribuiti da Tucker Film, e provenienti dal Far East Film Festival di Udine. Better Days quest’anno era nella cinquina per l’Oscar al Miglior film straniero, e a guardarlo bene avrebbe meritato più di Un altro giro. Girato da Derek Tsang in una megalopoli cinese, ci apre il micromondo del bullismo femminile. Una ragazza diligente e assennata stringe un patto con un teppistello di strada per farsi scortare. Unico modo di evitare le compagne moleste, già fiere del suicidio di un’altra ragazza di scuola. Film amarissimo ma ricco di sfumature d’infinita dolcezza. Ecco il tocco asiatico che sposa emozioni estreme e contrastanti con armonia di cui l’Occidente è quasi sempre incapace. L’estetica della rissa quanto la poesia di un pianto nascosto in un film epopea, 2 ore e 20 che tengono incollati a poltrona e kleenex stringendo lo stomaco e accarezzando l’anima. Ecco un film che emoziona senza tregua. Di un plot simile gli americani avrebbero fatto una serie come tante o uno pseudo-action. A Hong Kong no invece, perché questo è cinema d’arte, impegno sociale, e narrazione di una generazione sola e perduta.

Sono soli anche gli strani protagonisti di I WeirDo. Ci trasferiamo a Taiwan, una grande città, oggi. Un ragazzo bravissimo nel suo lavoro di traduttore è affetto da DOC, disturbo ossessivo compulsivo. Terrore dei germi, pulizie continue e un impermeabile, guanti in lattice e mascherina lo proteggono dal mondo esterno. E da rapporti in presenza, diremmo oggi, visto che il film, pur girato in tempi non sospetti, sembra anche un’anticipazione ai look imposti dal Covid-19. Un giorno il ragazzo incontra una ragazza conciata come lui, dentro e fuori. Quella che nasce come una commedia apparentemente basata su ripetizioni meccaniche sboccia in una complessità d’anime incrociate su una tela cinematografica di colori netti e accesi come quelli di un supermercato. Ma una virata drammatica nelle love-story c’è sempre, quindi occhio alle sorprese. Il regista Liao Mingyi fa centro perché riesce a immergerci pienamente tra due solitudini problematiche con leggerezza e nei loro attriti con mano ferma e gentile. Da vedere in coppia, ma restando aperti a qualsiasi piega della conversazione post film.

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