Andy Woodward ha provato ad ammazzarsi almeno dieci volte. Ha parcheggiato la sua auto nel garage con un tubo di plastica infilato nello scappamento. Si è incamminato lungo i boschi con una corda nello zaino, deciso ad annodarsela intorno al collo. Ha anche comprato delle compresse che avrebbero dovuto aiutarlo ad addormentarsi. Per sempre. Se non l’ha mai fatto è stato per una questione di coraggio. Non per mancanza, ma per eccesso. Perché continuare a vivere in quel modo è stato molto più difficile che farla finita. La sua vita sembra uscita dal Red Riding Quartet di David Peace tanto è nera, crudele, dolorosa. La sua storia è difficile da raccontare. Ma anche da ascoltare. La prima volta che è riuscito a parlarne è stato cinque anni fa. Ha svelato tutto in un’intervista al Guardian. Ha confessato di aver subito violenze sessuali da Barry Bennell, il suo allenatore ai tempi del Crewe Alexandra.

Allora Andy era poco più di un bambino, un’anima tenera che sognava di fare il calciatore. E invece si è trovato a dover dribblare un dolore sconfinato. Ha subito centinaia di abusi, fisici e psicologici. Violenze che si sono ripetute con varianti più o meno disturbate anno dopo anno dopo anno. Fino a quando quella presenza sinistra e maligna non è entrata addirittura a far parte della sua famiglia. Le sue parole hanno tramortito per settimane in calcio inglese, hanno fatto breccia nei cuori. Soprattutto in quelli delle altre vittime, tutti ex bambini che sognavano di diventare calciatori e che nel frattempo sono diventati uomini. In centinaia hanno letto le sue frasi e si sono rispecchiati in quello stesso abisso. E poco a poco hanno deciso di offrire la propria testimonianza, di liberarsi di quel fardello. Dopo decenni di ermetico silenzio hanno pronunciato i nomi dei loro aguzzini. E hanno trovato la forza di raccontare quello che hanno subito. Fra le lacrime e i singhiozzi. Un viaggio nella sofferenza di un’intera generazione di ragazzi fra gli otto e i quindici anni che ha portato a una lunga serie di denunce contro pedofili seriali già in carcere o nel frattempo deceduti. Ma anche a una nuova inchiesta, che si è chiusa un paio di settimane fa con la triste conclusione che fra il 1970 e il 1995 la Football Association non ha fatto nulla per evitare che i bambini dei settori giovanili fossero esposti al rischio di violenze.

La storia di Andy inizia nel 1984. Allora è un ragazzino di 11 anni che gioca nel Stockport Boys come difensore. Ed è anche bravo. In molti gli predicono un avvenire da calciatore professionista. Così Barry Bennell lo invita a sostenere un provino per una delle sue squadre che si allenano sul campo del Manchester City, a Platt Lane. È una partita che non cambierà la sua carriera, ma la sua esistenza. Andy entra nel settore giovanile del Crewe Alexandra. Il primo passo verso un futuro brillante. Solo che il sogno scolorisce presto in un incubo. Bennell dice al ragazzo che può stare a casa sua. Ma a Woodward basta aprire la porta per capire che quell’appartamento aveva qualcosa di strano. Più che a misura d’uomo, era a misura di bambino. Tre slot machine, console di videogiochi, un tavolo da biliardo, due cani dei Pirenei, una scimmietta ammaestrata pronta a sedersi sulle spalle degli ospiti. Ma ogni paese dei balocchi nasconde la sua atrocità. E quella casa che assomigliava molto a una sala giochi era il teatro di centinaia di abusi sessuali.

Bennell assume il controllo sulla vita di Andy. Se lo porta dietro alle partite del Crewe, lo presenta come un ragazzo che farà parlare di sé nel mondo del calcio. Poi quando sono soli ricominciano le violenze. E le minacce. Il colpo di scena arriva tre anni più tardi. Barry Bennell allaccia una relazione con la sorella di Andy. Anche lei è minorenne. Ma il fatto che lei abbia solo 16 anni non è una condizione ostativa per l’allenatore. Anzi. Il mister prende da parte il suo calciatore e gli dice di tenere la bocca chiusa. Altrimenti non avrebbe mai più giocato a calcio. Andy annuisce ed esegue alla lettera. Anche perché Bennell è considerato il miglior tecnico delle giovanili di tutta l’Inghilterra. Per Andy inizia un nuovo calvario. A volte il suo allenatore prova ad abusare di lui anche se la sorella è in casa. Ma l’orrore è solo all’inizio. Qualche tempo dopo il mister e la sua fidanzata decidono di ufficializzare la loro relazione. Così Bennell comincia a frequentare assiduamente casa Woodward. Ora ci sono pranzi domenicali e feste comandate da passare insieme. Fingendo anche cordialità. Va avanti così fino al 1991. Perché i due decidono di sposarsi.

Andy segue la cerimonia con lo sguardo spento e la rabbia che si gonfia dentro il suo stomaco. Lui si è smarrito già da tempo. E ora teme di aver preso anche sua sorella. Sul campo le cose non vanno meglio. Debutta nella prima squadra del Crewe, ma sente che qualcosa si è rotto. Woodward si fa male spesso. Ma molti di quegli infortuni sono “mentali”. Nel 1995 passa al Bury. Bennell intanto viene arrestato per pedofilia. Così il difensore ritrova energia. Gioca un paio di stagioni ad alti livelli. Poi qualcosa va in pezzi nuovamente. Nel 1999 lo Sheffield United vuole ingaggiarlo. È una grande opportunità. Solo che Woodward va a fare la spesa e viene sorpreso da un attacco di panico. Il problema diventa sempre più frequente. In una partita contro il Gillingham Andy sente di dover uscire dal campo a tutti i costi. Alla metà del primo tempo. Rientra negli spogliatoi di corsa. Si siede da solo su una panchina e inizia a piangere, inizia a credere che la sua vita sia finita. Suicidio è una parola che appare spesso nella sua testa. “La sola cosa che mi ha fermato – dice al Guardian – è la devastazione che avrei creato agli altri”. La sua vita diventa una finzione. Fa il calciatore anche se dentro ha smesso di esserlo da tempo. Quando si ritira passa 12 anni in polizia. Ma poco prima dell’intervista al Guardian viene licenziato. Aveva avuto una relazione con la sorella di una vittima di un crimine.

Per anni Andy Woodward ha pensato a come un singolo individuo è stato capace di rovinare centinaia di vite. Un pensiero che è diventato un’ossessione quando ha saputo perché i genitori avevano deciso di chiamare la sorella Lydia. Sua madre aveva una sorella. Aveva 22 anni ed era incinta quando decide di uscire in un venerdì sera come tanti nella periferia sud di Manchester. Perde l’autobus. Così inizia a camminare. In un attimo viene trascinata dietro a una siepe, violentata, colpita a morte. È un delitto che sconvolge la comunità locale. E anche qualche poliziotto. Le indagini durano poco. L’assassino viene preso dopo poco. Si chiama Ronald Bennell e ha 18 anni. Ed è il cugino di Barry Bennell. Due settimane dopo l’intervista di Woodward al Guardian si fa avanti un’altra vittima. Si chiama David Eatock e nel 1995 è arrivato al Newcastle su ordine di Kevin Keegan. Il primo allenamento è sensazionale, l’attaccante domina su ogni pallone. Così i bianconeri gli fanno firmare un contratto di tre anni e lo guidano alla sua nuova abitazione. Il Newcastle ha due edifici adibiti all’accoglienza dei giocatori. Uno è pieno. Così Eatock deve andare nell’altro, quello vuoto. Totalmente.

Il ragazzo comincia ad accusare la solitudine. Il tecnico delle giovanili George Ormond gli propone di andarsi a bere una pinta insieme. Anche perché Eatock ha 18 anni e una birra non può certo fargli male. “Sono andato al pub con lui e ha iniziato ad offrirmi una pinta dopo l’altra – ha raccontato al Guardian – io ancora un ragazzino praticamente, ma lui ha iniziato subito a parlarmi di sesso, mi ha chiesto qualcosa riguardo al mio pene”. Solo che Ormond è simpatico. Così David si fida di lui. Gli dice anche che in quei giorni si sta portando dietro un grande peso. Perché a suo padre hanno appena diagnosticato un cancro all’intestino. L’allenatore gli dice di non preoccuparsi, che andrà tutto bene. Poi lo accompagna non solo in hotel, ma anche in camera. Un comportamento che viene frainteso per un eccesso di zelo. Almeno fino a quando l’allenatore non si chiude la porta alle spalle. “Ero paralizzato, sotto shock”, dice Eatock alla BBC. Quello che è successo si trasformerà in una cicatrice che non guarirà mai. Perché invisibile. Proprio come successo a decine e decine di altri ragazzini. Testimonianze dolorose. Ma che hanno dato la forza di uscire allo scoperto a tante altre vittime.

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