“Il contratto prevedeva 36 ore settimanali su turni, con disponibilità anche per le fasce serali e nel fine settimana. Ne avevo proposte 20: mi hanno detto che non sarei stato chiamato. Lo stipendio? Il bando parlava di 3mila euro, avevo ipotizzato 1.900 euro netti, invece sono poco più di 1.200”. Andrea, infermiere di Padova, ha risposto al bando da 534 milioni di euro con cui l’ormai ex commissario straordinario Domenico Arcuri puntava a reclutare attraverso le Agenzie per il lavoro 12mila infermieri e 3mila medici da destinare alla campagna vaccinale contro il Covid 19. A quasi tre mesi dalla pubblicazione si sono candidate 28mila persone tra cui solo 5mila infermieri. Ma, di fronte alle condizioni proposte, molti hanno rinunciato. I contratti sottoscritti sono 1.750, mentre altri mille lavoratori devono completare le visite mediche o stanno ancora perfezionando la procedura di selezione. Secondo la struttura del commissario questi numeri sono in linea con il fabbisogno espresso finora dalle Regioni, ma la sproporzione è evidente: gli infermieri assunti sono solo 540, i medici più del doppio. E la storia di Andrea spiega, in parte, il perché.

“È stato un chiaro fallimento”, commenta Andrea Bottega, segretario nazionale del sindacato Nursind. “Finora sono stati gli infermieri del Servizio sanitario nazionale a compensare le carenze”. La causa? Nel bando firmato da Arcuri, spiegano i rappresentanti della categoria, ci sono diversi peccati originali. Innanzitutto, la tabella contenuta nel bando riportava la cifra di 3.077 euro, che gli infermieri hanno interpretato come stipendio lordo. Ma si tratta invece del costo del lavoro aziendale. “Uno specchietto per le allodole, perché poi bisogna sottrarre gli oneri a carico dell’ente che pesano circa per il 36 per cento: per questo scendiamo sotto i 2mila euro lordi”, spiega Bottega. Così si arriva a un compenso netto mensile di circa 1.300 euro, meno di quanto guadagna un neoassunto nel Servizio Sanitario nazionale. Come emerge dai contratti che ilfattoquotidiano.it ha visionato, la retribuzione di riferimento è il minimo tabellare previsto dal contratto collettivo della sanità per gli infermieri. Inserire nel bando quella cifra senza consentire agli infermieri di capire quale sarebbe stata la cifra finale ha comportato che tanti abbiano rinunciato in corsa.

Ma c’è anche un’altra conseguenza: la sproporzione tra medici e infermieri assunti fa sì che il costo complessivo lieviti, perché per i primi il bando indica un costo lordo del lavoro mensile di 6.538 euro, più del doppio rispetto a quanto previsto per un infermiere. Il margine di agenzia, che Invitalia assicura essere inferiore al cinque per cento ma senza specificare la cifra esatta, è calcolato come percentuale del costo del lavoro effettivo: se si arrivasse a coprire il fabbisogno previsto di 15mila lavoratori con le attuali proporzioni i costi d’agenzia sarebbero molto più alti dei 25 milioni previsti nel bando.

L’altro problema è che il bando si rivolge a una platea ridotta di professionisti disponibili: gli infermieri in libera professione, che in Italia sono appena 30mila e che dall’inizio della pandemia, con il Servizio sanitario nazionale che si è dovuto rafforzare dopo anni di tagli, sono ricercatissimi: “Molti infermieri che lavoravano nel settore privato si sono riversati nel pubblico e ora ci sono carenze, ad esempio nelle Rsa”, spiega Bottega. A questo si aggiungono le condizioni economiche poco appetibili e l’assenza delle garanzie di un posto fisso, dato che si tratta di contratti di nove mesi. Non solo: secondo i sindacati le agenzie chiedono un impegno di 36 ore settimanali, sei giorni su sette. Di fatto un tempo pieno che costringe un libero professionista a mollare tutto per un impegno a termine: “Nessuno si lega in questo modo se può avere un contratto a tempo indeterminato in un qualsiasi ente pubblico oppure rimanere in libera professione, dove con un certo giro quei soldi si possono guadagnare anche in una settimana”, spiega ancora Bottega.

E trovare un accordo sull’orario è quasi impossibile. Andrea dopo aver presentato la domanda era stato contattato da Orienta, l’agenzia che si occupa della procedura in Veneto: “Il contratto che mi offrivano prevedeva 36 ore settimanali su turni, con disponibilità anche per le fasce serali e nel fine settimana”, racconta. A quel punto chiede la possibilità di lavorare con un orario ridotto: “Ho proposto 20 ore. Mi hanno detto: ‘Ti segniamo, ma non sarai chiamato’. Nel bando non si fa riferimento a un orario particolare, ma di fatto è questa l’impostazione delle agenzie: su 1.750 contratti firmati solo 32 sono part time. Durante la telefonata Andrea chiede informazioni anche sulle condizioni economiche, partendo dal fatto che nel bando veniva indicato un costo mensile lordo del lavoro di 3mila euro: “Facendo due conti avevo ipotizzato 1.900 euro netti, ma non è così. Con il contratto d’agenzia per i sanitari il compenso è di 1.900 euro lordi, poco più di 1.200 netti al mese. Impensabile accettare a queste condizioni”.

“Il bando cerca gli infermieri dove non ci sono e lo fa affidandosi ad agenzie per il lavoro che rappresentano una complicazione ulteriore”, sostiene Nicola Draoli, consigliere nazionale di Fnopi, la Federazione nazionale degli infermieri. Anche per questo Regioni e aziende sanitarie si sono organizzate in autonomia, tra accordi con i medici di base, bandi per reclutare i liberi professionisti con contratti diretti e incentivi al lavoro straordinario degli infermieri del Servizio sanitario nazionale. “Per ora la campagna vaccinale è stata ostacolata dalla mancanza di dosi – conclude Draoli – ma quando partirà quella di massa tutti si renderanno conto che non sarà questo bando a fornire i professionisti necessari”.

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