Le tasse saranno anche “bellissime” (cit. Padoa Schioppa), perché hanno consentito alle nazioni di crescere, ma non c’è dubbio che nella storia siano state una delle maggiori fonti di ingiustizie, e probabilmente alla fine abbiano prodotto più dolori che piaceri. In particolare, quando a doverle pagare implacabilmente fino a privarsi del necessario sono solo quelli che lavorano e faticano per condurre alla fine una vita modesta. Magari mentre ai ricchi, a quanti già possiedono e guadagnano molto – ovviamente con tutti i crismi di legge, a testimonianza che nulla può essere più iniquo delle leggi – il Fisco chiede ben poco, certamente molto meno in proporzione a tutti gli altri.

Ora – in un periodo come il presente, in cui pare che i ceti medi non siano tenuti in grande considerazione dalla politica – pare che qualcosa si stia muovendo, ma cambierà qualcosa? I primi a darsi da fare sono stati gli australiani, intenzionati a far pagare a Google e Facebook l’utilizzo dei dati e delle informazioni disponibili in rete, cui le multinazionali accedono gratuitamente, salvo poi rivenderle a caro prezzo. Da seconda anche l’Unione Europea ha mosso i primi passi per arrivare a un sistema di imposizioni fiscali che escluda alcuni privilegi, al momento amorevolmente riservati alle grosse multinazionali e ai paradisi fiscali. Ancora non è stata presa nessuna decisione ultimativa, ma alcune buone intenzioni sono sul tavolo.

Infine, anche gli Stati Uniti con il nuovo presidente Biden, sembrano volersi avviare sulla strada di una maggiore equità fiscale, mettendo fine all’assurda situazione per cui le grandi multinazionali, le banche, le finanziarie, le compagnie del Websoft (Microsoft, Alphabet-Google, Amazon) grazie a sedi fiscali di comodo, riescono a strappare aliquote fiscali ridicole e profitti inimmaginabili per qualsiasi altro mortale.

Resta in ogni caso sconsolante vedere come nell’epoca di Internet, in cui l’analfabetismo è stato debellato da diversi decenni, in cui le informazioni in apparenza circolano liberamente, in anni in cui la maggior parte dei cittadini sia convinta di vivere in regimi democratici, i popoli continuino a tollerare, senza un minimo di rivolta, di vivere secondo la legge economica di Superciuk, in cui regolarmente e con l’avallo delle leggi si ruba ai poveri per dare ai ricchi. Eppure, è così.

Mentre un lavoratore italiano con un reddito appena superiore ai 29mila euro lordi deve rinunciare al 38% del suo guadagno, le grandi imprese del Websoft hanno fatturati da capogiro, accumulano liquidità da far invidia a qualsiasi banca (500 miliardi nel 2018), capitalizzano più del doppio del Pil italiano, ma pagano tasse nel complesso non oltre il 14% dei guadagni (ovviamente stimati, ma non dichiarati).

In Italia, ad esempio, la misera cifra sborsata all’Erario da queste compagnie supera di poco i 70 milioni, a fronte di un fatturato non inferiore ai 2,5 miliardi (gli studi di settore valgono solo per i comuni mortali) e se capita che per sbaglio un pm accerti l’esistenza di qualche forma di evasione, allora ci pensa il Fisco, solerte nel trovare accordi al ribasso con i grandi evasori, a premiare quelle frodi che la legge dovrebbe punire (es. Apple nel 2015, a fronte di un’evasione accertata di 880 milioni, chiuse con un accordo da 380). Come si dice, anche lo Stato italiano: forte con i deboli, ma debolissimo con i forti.

Ora, come abbiamo detto, pare che qualcosa si stia muovendo, ma noi non siamo particolarmente ottimisti. Certe imprese non sono diventate, come vorrebbero farci credere, too big to fail, sistemiche alla funzionalità del mercato: sono semplicemente diventate troppo grandi per essere ricondotte all’interno di una legalità vincolante per tutti. Aziende come Amazon, Apple, Microsoft, Alphabet, molte società cinesi e molte banche d’affari sono diventate – con la colpevole copertura di molti governi e il tacito silenzio degli elettori – soggetti troppo voluminosi per poter essere obbligati al rispetto delle leggi ordinarie.

Essi hanno una forza di interdizione, un peso economico e politico superiore allo stesso già malmesso rule of law. Come nel XVII secolo durante la Guerra dei Trent’anni, signorotti alla von Wallenstein potevano disporre di eserciti personali con più di 50mila soldati in grado di decidere le sorti di una guerra combattendo per questo o quello stato, nella moderna nuova economia digitale molte imprese sono cresciute a dismisura, approfittando di vuoti legislativi consapevoli e spesso colpevoli. E ora sono in grado di fare il bello e il cattivo tempo con il mercato e con le leggi, lasciando che queste debbano essere osservate solo dai pesci piccoli.

È chiaro che i timidi provvedimenti del presidente Biden, come le leggi europee o australiane, ben poco potranno contro lo strapotere di Apple, Google, Morgan Stanley, enormi conglomerati cinesi sostenuti dallo stato, se non ci sarà una presa di consapevolezza da parte dei cittadini che i profitti di queste, oltre un certo limite, sono un danno per la convivenza e il mercato, pesanti limiti alla crescita naturale per lavoratori, famiglie, piccoli imprenditori, per quel ceto medio che rappresenta il 75% della popolazione dei paesi sviluppati e che in teoria dovrebbe assicurare lo sviluppo e la democrazia.

Negli anni ’20 i Mucrackers, giornalisti chiamati spregiativamente così perché denunciavano le pessime condizioni dei lavoratori americani, in realtà salvarono l’America e contribuirono alla messa in pratica di leggi e regolamenti che consentirono lo straordinario sviluppo della ricchezza negli Usa, affossando le aspirazioni monopolistiche dei Robber Barons. Il bivio, prima che i mostri economici e dittatoriali prefigurati dall’orwelliano 1984 diventino una realtà irreversibile, è ormai prossimo: sarebbe meglio rimboccarsi le mani e far sentire la nostra voce.

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