In un anno circa di lavoro, insediatosi per guidare una squadra che era un accumulo di macerie atletiche, tattiche e psicologiche, Rino Gattuso al Napoli ha vinto una Coppa Italia, è in corsa per un piazzamento in zona Champions, si deve giocare un sedicesimo di finale in Europa League ed ha battuto tre volte su quattro la Juventus. Senza mai avere a disposizione, complice il Covid e gli infortuni, la squadra da lui disegnata.

Eppure Gattuso non piace ad una parte dei napoletani. Ma è un problema antropologico e sociologico. Non calcistico.

Navigando sul web, tra siti e social network, si capisce che Gattuso è inviso agli pseudointellettuali appartenenti alla media borghesia improduttiva, quella che, nell’Italia degli anni 70 e 80, riceveva per statali quarantenni pensioni con cui i loro figli paninari si compravano il Moncler.

Pseudo perché la concezione aristotelica di intellettuale, generalmente considerata quella più pura, la stessa ripresa durante l’illuminismo francese e poi arrivata fino ai nostri giorni, qui, in Italia, vede gli intellettuali come coloro che si impegnano nella ricerca della verità, attraverso la competenza, la scienza, la sapienza, l’intelligenza e l’arte. Per potersi definire tale un intellettuale deve essere completamente super partes, ovvero non schierato, né politicamente né socialmente.

Invece i componenti della tribù degli anti-gattusiani non hanno competenze calcistiche, non hanno giocato mai a calcio, neppure tra i dilettanti che storicamente hanno sempre trovato il loro bacino di recruitment nei quartieri popolari di “giù Napoli”, e, soprattutto sono schierati. Hanno solo un vocabolario più ricco e qualche vetrina per argomentare concetti che entrano nella sfera privata e per fare moral suasion a favore di quegli allenatori che, coerentemente con il loro profilo, fanno status.

Benitez prima ma soprattutto Ancelotti, di cui magnificano perfino i peti facendoli passare per melodie che emanano profumi francesi. Eppure entrambi, Benitez e Ancelotti, andati via da Napoli non hanno realizzato finora nessun piazzamento migliore rispetto a quanto fatto nella città di Partenope. E che è, addirittura, molto peggio di quanto, rapportato al periodo di permanenza, conquistato da Ringhio.

Ma gli pseudo-intellettuali, si sa, non sono competitivi. La vita, beati loro, non li ha mai messi nelle condizioni di combattere e competere. Ed il calcio è competizione, si vince e si perde, occorre salire sul predellino e sentire la strofa di “We are the champions”. Il resto è fuffa.

Loro sono invece eterei, ancorati ad un concetto di bellezza derivante dal censo che, in questo caso, è espresso dal passato (non il presente) illustre. Amano quelli che andrebbero bene per i loro salotti, da presentare come “lui è quello che ha vinto tre Champions…”. Infatti gli stessi pseudo-intellettuali non hanno amato neppure Maurizio Sarri che in fatto di “grande bellezza” poteva dare i punti anche al suo tifoso sorrentino.

Non lo hanno amato perché Sarri, come Gattuso, non aveva un curriculum vitae illustre e poi si sarebbe presentato a casa loro in tuta. Sporchi, brutti e cattivi.

“Troppo operai, troppo volgari”, meglio, testuale, un “Ancelotti che sorseggia con classe il te durante la partita dell’Everton dimostrando un equilibrio impeccabile”, un momento che a Napoli è stato magnificato, sempre dagli pseudo-intellettuali, quasi come se il tecnico emiliano avesse alzato l’ennesima Champions (è settimo nella Premiere League). Basta perché altrimenti si finisce per ridicolizzare un’intera tifoseria per colpa di chi gioca a fare l’intellettuale pur non capendo l’importanza dei numeri, nel tempo e nel contesto in cui vive.

Gattuso sa bene, e lo ripete spesso, che alla fine contano solo i numeri. Fatelo lavorare e poi alla fine vedremo, sulla base dei numeri, chi ha avuto ragione. Me lo immagino, è solo fantasia confusa dalla nebbia del tifo, Gattuso che, a fine stagione, “li va a prendere sotto casa” (cit. Ringhio) per urlargli (a proposito anche l’urlo è volgare): “intellettuali #sticazzi”.

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