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Vaccini Covid, ci vuole pragmatismo: non ci si può limitare a procedure perfette

Vaccini Covid, ci vuole pragmatismo: non ci si può limitare a procedure perfette
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Una delle caratteristiche che ammiro nelle persone è il pragmatismo. Chi è pragmatico non si trastulla nel ricercare un mondo ideale ma concretamente accetta la realtà adeguandosi. E’ chiaro che in un mondo ideale i vaccini sarebbero perfetti oltre a venir somministrati con solerzia da strutture pubbliche ben organizzate. Purtroppo occorre che al più presto pragmaticamente si scenda a compromessi con la realtà.

I vaccini finora approvati non sono sufficienti. Il vaccino prodotto dalla casa farmaceutica AstraZeneca, con la partecipazione attiva di un laboratorio italiano sito a Pomezia, non è perfetto. Sappiamo però che le sperimentazioni sulla sicurezza hanno dato esito ampiamente positivo. Quella che è dubbia è l’efficacia, in quanto per disguidi e errori gli studi hanno trovato risultati per il 62% in un caso e per il 90% in un altro. Mettersi ad attendere nuovi studi richiederebbe un rallentamento di circa due o tre mesi.

A questo punto secondo me pragmaticamente occorre, in attesa dell’esito degli ulteriori studi, accettare in emergenza al più presto e non attendendo il 29 gennaio questo vaccino che è già pronto in grandi quantità. Tra l’altro viene già ampiamente somministrato in Inghilterra, Argentina, Messico e India. Se emergerà in seguito che non offre una copertura ottimale coloro che lo hanno fatto potrebbero accedere ad altri vaccini che nel frattempo verranno prodotti.

La decisione finale sull’ammissione di questo vaccino spetta all’ente europeo Ema ma la
pressione dell’opinione pubblica e degli Stati può favorire una valutazione rapida del dossier senza troppi attendismi.

Il secondo punto da gestire pragmaticamente è la somministrazione. La macchina burocratica e sanitaria progettata dal commissario con medici giovani neo assunti in gazebo a forma di primula non è in grado da sola di fare decine di milioni di vaccinazioni, tra l’altro con richiamo, in pochi mesi. I motivi sono la carenza di infermieri e il fatto che i medici non conoscendo i pazienti devono attuare valutazioni molto complesse per poi vaccinarli.

Occorre coinvolgere i medici di medicina generale che sono distribuiti sul territorio, conoscono i pazienti, le loro allergie, le eventuali terapie, sanno chi ha attuato chemioterapie e hanno la confidenza per consigliare i loro assistiti. Dispongono già di un database con tutti gli assistiti. Ricordiamo che in ottobre-novembre di ogni anno normalmente attuano circa venti milioni di vaccinazioni antinfluenzali.

Il vaccino AstraZeneca, che può essere conservato in frigoriferi normali, è ideale per essere fornito loro. In tre mesi sarebbero in grado di vaccinare gran parte della popolazione. La struttura centralizzata potrebbe rimanere e continuare ad operare, ma chiaramente riceverebbe un aiuto enorme dal coinvolgimento di sessantamila medici di medicina generale.

Si può poi valutare, come suggerito autorevolmente dal prof. Giuseppe Remuzzi, di utilizzare per tutti una dose di vaccino per distanziare la seconda dopo tre mesi in modo da offrire a più persone una qualche copertura. L’efficacia di una sola dose non è ottimale ma sufficiente a ridurre in modo cospicuo i casi da ospedalizzare e inviare in terapia intensiva. La seconda dose verrebbe comunque somministrata in un tempo successivo, migliorando la copertura.

Rimanere ancorati ad un mondo ideale dove tutto deve essere perfetto oppure non se ne fa nulla ci espone al rischio che appunto non si faccia granché e che per mesi arranchiamo con pochi vaccini, o senza una organizzazione che li riesca a somministrare.

In psicologia spesso abbiamo a che fare con persone schiacciate da una immagine idealizzata di quello che vorrebbero o pensano di dover essere. Non riescono a godere della loro vita perché sono sempre sotto il peso di una immagine di quello che avrebbero dovuto e non sono riusciti a raggiungere. Spesso possono apparire bloccati perché pensano: “Non riuscirò mai a realizzare i miei sogni, quello che i miei genitori desideravano da me, tanto vale che non mi impegni”.

Non vorrei che anche a livello statale emergesse questo senso di impotenza – “non ce la possiamo fare” – e il piano vaccinale venisse schiacciato da una macchina burocratica che vuole applicare procedure sulla carta perfette, ma nella realtà difficili da realizzare.

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