C’è un’altra emergenza sanitaria, più silenziosa del Covid, ma non meno terribile, che minaccia il mondo intero: la resistenza dei batteri agli antibiotici che limita la loro efficacia nella cura delle infezioni. Nella settimana mondiale sull’uso consapevole di questi farmaci (dal 18 al 24 novembre), l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato gli ultimi dati della sorveglianza nazionale dell’antibiotico-resistenza, relativi al 2019, che riguardano un gruppo selezionato di otto patogeni (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species), i più rilevanti dal punto di vista epidemiologico e clinico e che rappresentano infezioni sia associate all’assistenza ospedaliera sia acquisite in ambito comunitario. I numeri non sono confortanti. Le percentuali di resistenza in Italia “si mantengono elevate e talvolta in aumento rispetto agli anni precedenti” si legge nel rapporto. Le regioni centrali e del Sud sono quelle messe peggio. “Le differenze geografiche dipendono dalla diversa attenzione che è stata data al problema” commenta Annalisa Pantosti, responsabile della sorveglianza sull’antibiotico-resistenza dell’Istituto superiore di sanità.

Prendiamo il caso della Klebsiella pneumoniae resistente ai carbapenemi (una classe di antibiotici a largo spettro d’azione), responsabile di polmoniti e infezioni urinarie. Dopo un calo nel 2018 rispetto al 2017, si è osservato un nuovo aumento nel 2019: dal 26,8 per cento al 28,5 (“tuttavia – si specifica nel documento – considerando solo i laboratori che hanno partecipato alla sorveglianza sia nel 2018 che nel 2019 si riscontra una riduzione dal 26,4 per cento al 22,7 per cento”). Un altro esempio, lo Staphylococcus aureus, che causa infezioni alla pelle e polmoniti, è resistente alla meticillina nel 35,6 per cento dei casi contro il 33,9 di prima (il valore è stabile, intorno al 33 per cento, se si considera lo stesso numero di laboratori che hanno partecipato al monitoraggio).

“La resistenza agli antibiotici costerà all’Italia 13 miliardi entro il 2050” – Uno degli obiettivi del Piano nazionale per il contrasto dell’antimicrobico-resistenza, del 2017, è di passare da una sorveglianza basata su laboratori sentinella a livello regionale a una copertura su tutto il territorio nazionale entro il 2020. Oggi partecipano 130 laboratori in tutto il Paese (erano 98 nel 2018), garantendo una copertura del 41 per cento. La meta quindi è ancora lontana, nonostante gli sforzi (la Sicilia è passata da una copertura dell’8,5 per cento al 51,7 per cento; la Basilicata da 26,5 a 61,6 per cento; la Liguria dal 18,4 al 48,7; l’Umbria dal 51 al 76,6). “Il nostro Paese da anni è tra quelli in Europa con le più alte percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici utilizzate negli ospedali e vanta il triste primato di mortalità per antibiotico-resistenza, con diecimila decessi l’anno dei 33mila che avvengono a livello europeo” afferma Pantosti. Anche l’impatto economico è notevole. “I costi in più sono determinati dalle disabilità che si cronicizzano, dalle degenze più lunghe e dall’acquisto di antibiotici più cari – continua l’esperta dell’Iss -. Secondo l’Ocsee l’antibiotico-resistenza costerà all’Italia 13 miliardi di dollari (circa 11 miliardi di euro ndr) entro il 2050. È una pandemia silenziosa, di cui si parla meno, ma che come il Covid può colpire ognuno di noi, soprattutto i soggetti fragili, anziani e polipatologici, gli immunodepressi e anche chi ha contratto il virus Sars-Cov2”.

Anche i pazienti Covid dunque corrono dei rischi. “Nel dieci per cento dei positivi si osservano sovrainfezioni batteriche, causate nella stragrande maggioranza dei casi da germi multiresistenti ai farmaci. La complicanza batterica riguarda il 30 per cento di chi finisce in terapia intensiva e di questi la metà muore” dichiara Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive e tropicali (Simit) e primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma. “Nel corso della prima ondata si è verificato un cattivo uso degli antibiotici – spiega Pantosti -. Non era chiaro infatti se l’infezione da Covid, di tipo virale, si presentasse insieme a una coinfezione batterica, che solo adesso sappiamo essere rara. Lo sviluppo di sovrainfezioni invece avviene quando la degenza diventa lunga, durante l’immissione di un catetere venoso o urinario, o nelle procedure di intubazione che facilitano l’ingresso di microrganismi. L’ospedale – sottolinea l’esperta – è un incubatore di super batteri resistenti”.

Tutte le regole igieniche che abbiamo imparato in questi mesi per contrastare la diffusione del virus (lavaggio delle mani, uso della mascherina, distanziamento fisico) sono utili per prevenire anche le infezioni batteriche. “Le persone che fanno terapie prolungate con antibiotici, o reduci da ricoveri ospedalieri o che stanno nelle Rsa diventano spesso dei portatori di germi multiresistenti, nell’intestino o sulla pelle. Oggi questi germi sono diventati più ubiquitari, non si trovano solo all’interno degli ospedali”, fa notare Andreoni. Come i batteri diventano resistenti agli antibiotici? “Quando il microrganismo viene messo sotto pressione dall’antibiotico cerca di sviluppare resistenza contro il nemico. Da qui l’importanza di somministrare l’antibiotico giusto, indicato per quel patogeno, per un periodo di tempo giusto, perché se non si finisce la terapia il germe sopravvive, e secondo le dosi appropriate”.

L’antibiotico non è efficace contro le infezioni provocate da virus come un normale raffreddore o l’influenza. Gli antibiotici uccidono i batteri. “Se c’è un sospetto di infezione batterica va effettuato un tampone rettale o faringeo per l’individuazione del batterio a cui può far seguire l’antibiogramma, un esame che valuta la sensibilità del microrganismo a un determinato antibiotico per scegliere quello più appropriato – spiega Andreoni -. Se si sceglie un antibiotico ad ampio spettro vengono eliminati anche i germi non patogeni, che lasciano spazio ai superbatteri resistenti. In pratica, si rompe la competizione sana tra germi buoni e cattivi, che prendono il sopravvento. Dobbiamo preservare il più possibile i nostri antibiotici altrimenti smetteranno di salvarci”. La cultura della prevenzione contro la multiresistenza dei germi è ancora scarsa. “Solo in pochi ospedali all’ingresso si fa un controllo preventivo delle infezioni con tampone. I costi tra l’altro sono minimali, se non si fa è per mancanza di organizzazione” conclude l’infettivologo.

L’Istituto superiore di sanità: “Azioni messe in campo insufficienti” – Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è uno dei principali problemi di sanità pubblica e le Regioni devono darsi ancora tanto da fare. “Le azioni messe in campo finora in ambito nazionale” certifica il rapporto Iss “sono risultate per il momento insufficienti a contrastarlo efficacemente”. Lo strumento di indirizzo è rappresentato dal Piano nazionale 2017-2020 che adotta l’approccio multidisciplinare One health per promuovere la salute umana, animale e ambientale. “Il Piano si fonda su cinque pilastri – li illustra Maria Luisa Moro, direttrice dell’Agenzia sanitaria e sociale dell’Emilia Romagna e coordinatrice del tavolo interregionale per l’implementazione del Piano -. Innanzitutto la sorveglianza e il monitoraggio delle principali specie batteriche multiresistenti, delle infezioni correlate all’assistenza e dell’uso di antibioticici, con il coinvolgimento di tutti i laboratori di microbiologia ospedalieri, sia pubblici sia privati, come già fanno per esempio Lombardia, Emilia Romagna, Friuli, Toscana e Campania. Poi la prevenzione delle infezioni associate all’assistenza in ospedale, nel territorio e negli allevamenti, la promozione dell’uso prudente degli antibiotici nei reparti attraverso un team di infettivologi, farmacisti e microbiologi, la formazione per il personale sanitario, campagne di informazione per i cittadini e infine lo sviluppo della ricerca di nuovi test diagnostici e antibiotici e di interventi efficaci a prevenire infezioni e pratiche inappropriate”. Le difficoltà non mancano. “Scontiamo un po’ di ritardo rispetto al resto d’Europa – ammette Moro -, sono tante le misure da prendere, per ottenere una riduzione importante dei livelli di resistenza bisogna lavorare su tutti i fronti, nell’ambito umano e in quello veterinario. Per monitorare il grado di avanzamento del Piano a livello locale – aggiunge la direttrice – è stato messo a punto uno strumento, chiamato Spincar, finanziato dal ministero della Salute, già sperimentato in alcune regioni all’inizio del 2020 e che si sarebbe dovuto adottare in un secondo momento in tutta Italia ma a causa della pandemia si è interrotto tutto”.

“Contenere uso antibiotici anche negli animali” – Nel settore zootecnico si stanno facendo passi in avanti. I target fissati al 2020 nel Piano per il contrasto dell’antibiotico-resistenza prevedono una riduzione del consumo di antibiotici totali del 30 per cento. Nel 2018, ultimo anno analizzato nel rapporto Esvac (European surveillance of veterinary antimicrobial consumption), negli animali destinati alla produzione di alimenti è diminuito del 17,2 per cento. Mentre quello di antimicrobici di importanza critica per l’uomo (utilizzati cioè per il trattamento di infezioni gravi e pericolose per le quali esistono poche opzioni terapeutiche disponibili) si è abbassato del 69,8 per cento, sorpassando l’obiettivo prefissato (meno dieci per cento). L’impiego di colistina, raccomandato come ultima risorsa e sulla base di test di sensibilità, deve essere portato a un livello inferiore di 5 mg/pcu (la dose di principio attivo per capo di bestiame): nel 2018 il valore era di 2,67 mg/pcu. Con l’introduzione della ricetta elettronica nel 2019, fa sapere il ministero della Salute, i dati di vendita degli antibiotici sono ulteriormente diminuiti.

L’obbligo della prescrizione elettronica veterinaria è stato rivoluzionario – dice Giuseppe Diegoli, direttore sanitario e amministrativo dell’Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia Romagna -, perché consente il passaggio dal dato approssimativo di vendita all’ingrosso di antibiotici al consumo reale. È fondamentale – puntualizza – che l’uso di questi farmaci sia contenuto anche in ambito veterinario perché i germi patogeni che albergano nell’uomo e nell’animale possono scambiarsi le resistenze. L’allevatore deve pertanto rispettare alcune norme di biosicurezza, come evitare di immettere animali provenienti da altre aziende o metterli prima in quarantena per prevenire la diffusione di malattie, sanificare le stalle alla fine di ogni ciclo produttivo, eseguire l’antibiogramma e somministrare antibiotici specifici e non a largo spettro”. Facile dire “antibiotic-free”, ma è un mito che andrebbe sfatato. “Crea un’immagine distorta – è il commento del veterinario -, il non utilizzo degli antibiotici negli allevamenti intensivi non è garanzia di benessere degli animali. Se si ammalano vanno curati, come le persone, non trattarli significa maltrattarli”. È sbagliato anche pensare che allora mangiamo carne piena di antibiotici. “Prima della macellazione – chiarisce Diegoli – vanno rispettati i tempi di sospensione specifici per ogni farmaco previsti dalla normativa per evitare residui di medicinali potenzialmente attivi negli alimenti”. Ultimo, ma non meno importante, l’impatto degli antibiotici sull’ambiente. “Da un paio di anni la Regione Emilia Romagna sta lavorando a un progetto di ricerca dei residui nelle acque reflue – conclude il veterinario -. L’Italia è indietro nella ricerca sui fattori di rischio, sull’eventuale presenza di germi multiresistenti e sull’identificazione degli antibiotici adeguati da impiegare in ambito ambientale”.

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