di Antonio Marino

Sono tra coloro che sostengono che uno dei problemi principali di questa emergenza sia la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni; è sotto gli occhi di tutti l’incapacità dei governi territoriali (salvo rare eccezioni) di provvedere alla gestione della sanità e del sistema sanitario, attribuita alla competenza degli stessi dall´art 117 della Cost. La sciagurata riforma del titolo V ha sottratto alla competenza dello stato l’organizzazione del suo sistema sanitario (nazionale a parole, regionale nei fatti), ovvero ha sostanzialmente disatteso l’art. 3 della Carta nella parte in cui tale riparto non rimuove, anzi accentua, le disuguaglianze sostanziali tra i cittadini.

Con un effetto evidente: ne beneficerà colui che si trova in un territorio in cui la sanità è gestita virtuosamente, ne subirà una lesione il cittadino di una Regione ove la sanità pubblica è lasciata a se stessa. Non sono ipotesi, ma fatti che abbiamo osservato e ancora osserviamo nel corso della pandemia: dalla sciagurata gestione del duo Fontana-Gallera dell’emergenza in Lombardia (dalla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro, alle gaffe dell’assessore, alle morti nelle Rsa, e al caos dei vaccini, per tacere delle inchieste sui camici), alla gestione, al contrario, efficace in Veneto, dove Luca Zaia è stato ben consigliato dalla squadra di tecnici.

Dunque, dobbiamo ammettere che la tutela del diritto alla salute è rimessa alla competenza o alla incompetenza di questo o quel governo regionale o, peggio ancora, sottostà agli affari e al clientelismo che martoriano la sanità. Allora vi lancio una provocazione: anziché limitarci a riformare ancora una volta il titolo V (oggetto perenne delle riforme costituzionali da inizio secolo ad oggi) perché non aboliamo le Regioni?

Mi spiego. Il problema non è circoscritto al settore della sanità ma riguarda anche altri ambiti parimenti fondamentali, quali ad esempio istruzione e lavoro. Vero è che lo Stato pone la cornice normativa, ma nei fatti sono le Regioni ad essere in concreto titolari della potestà legislativa, ovvero di emanare norme di rango primario. Le disuguaglianze, ovvero il risultato di questi diversi livelli di tutela, si moltiplicano. Nello scenario di questi e dei prossimi mesi, potremmo assistere e stiamo assistendo ad una progressiva disgregazione del patto sociale, poiché le disuguaglianze cominciano ad interessare fette sempre più ampie della popolazione.

Ben vengano da un lato ristori e sussidi alle fasce maggiormente colpite dall’emergenza, ma queste rappresentano semplicemente dei palliativi utili per l’immediato, non soluzioni strutturali. Non dico che l’abolizione delle Regioni risolverebbe sic et simpliciter i problemi, ma permetterebbe di adottare norme e tutele eguali per tutti su tutto il territorio nazionale, specie in quei settori ove ciascuno deve godere dello stesso trattamento: salute, lavoro e istruzione, su tutti (eliminando anche quelle gentili concessioni fatte alle Regioni a statuto speciale).

Vi sorprenderà, ma le Regioni con le strutture che conosciamo oggi sono state istituite dal legislatore solo nel ’70 e non dalla Costituzione del ’48. La Costituzione afferma solo tra i principi fondamentali quello del decentramento amministrativo (art 5); che ben potrebbe attuarsi lasciando ai territori solo i compiti amministrativi attribuiti e controllati dallo stato. È evidente pure che il principio di leale cooperazione tra stato e regioni è una chimera disattesa a più riprese non solo durante l’emergenza ma ancor prima.

L’abolizione delle regioni eliminerebbe anche il problema del coordinamento tra enti, riservando allo stato la competenza esclusiva a legiferare. Per non tacere dei minori sprechi a cui andremmo incontro, essendo le risorse pubbliche gestite ed erogate direttamente dallo stato, per cui non dovremmo leggere più di spese pazze dei partiti nei consigli regionali. Ai difensori delle regioni, che dite: ne vale la pena?

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