Appena conclusa l’assemblea degli Stati generali in cui i 30 delegati designati dalla base si sono confrontati e scontrati sui fronti opposti dei governisti (i dimaiani) e dei movimentisti-puristi (Di Battista, Lezzi, Morra ecc.) e che è stata aperta da Giuseppe Conte con un intervento in cui ha elogiato “il coraggio di cambiare idea” anche andando contro i valori di riferimento, il M5S si deve misurare con il sempre più insistente “segnale di collaborazione” da parte di Forza Italia.

Un segnale – secondo Goffredo Bettini, regista dai tempi di Veltroni delle mosse “ardite” del Pd ora ideologo riconosciuto di Zingaretti – che “deve essere raccolto senza indugi” e che ha suscitato in lui e in una considerevole parte del partito, per non parlare della totale adesione di Italia Viva, un tale entusiasmo da caldeggiare sulle pagine del Corriere addirittura un rimpasto con l’esplicito auspicio-invito a chiamare “anche all’interno dell’esecutivo le energie migliori e necessarie per competenza e forza politica”.

In questo contesto, dato che i segnali e le manovre di convergenza tra Fi e Pd in nome dell’eccezionalità del momento sono in corso da settimane, si sono concretizzati gli Stati Generali del M5S, sovraccaricati di aspettative per il protrarsi di una reggenza durata più del previsto nel momento meno ideale per catalizzare interesse e attenzione da parte di un’opinione pubblica concentrata comprensibilmente sull’andamento della pandemia e provata psicologicamente dalle restrizioni di un secondo lockdown semigeneralizzato.

Tutti gli osservatori quasi all’unanimità hanno evidenziato, anche perché i protagonisti si sono adoperati in tal senso, le grandi assenze (Grillo e Casaleggio), le divisioni, il tasso di conflittualità, i personalismi, ignorando o liquidando come beghe interne che non interessano a nessuno i motivi politici della dilaniante querelle tra le ragioni della mediazione e del compromesso rappresentate in primis da Conte (da esterno ma non irrilevante) e Luigi Di Maio contrapposte a quelle non negoziabili della coerenza e dell’identità rivendicate nelle sue “condizioni” da Di Battista.

Naturalmente il tema cruciale del limite al compromesso, ovvero ad accordi con le cosiddette “energie migliori”, più che mai stringente, è rimasto decisamente fuori focus, almeno nei titoli di prima pagina: “Stati troppo generali: tra i 5 Stelle non comanda nessuno” (Domani); “Il movimento si fa partito. E Di Maio vuole il controllo per neutralizzare Conte” (Repubblica); “Stati confusionali del M5S, Conte in ginocchio da Grillo: la mente migliore, lo sento spesso” (Secolo d’Italia); “Il giorno dell’agonia grillina” (Il Tempo); “Le 5 stelle perdenti o fetenti?” (Libero); “Mollati pure da Travaglio. La marea grillina ora è una palude” (Il Giornale).

E forse, stando alla qualità dell’attenzione giornalistica che è stata riservata a quello che sarebbe dovuto essere un passaggio fondamentale nel percorso del M5S, si può ricavare che ancora non sono diventati un partito come gli altri o comunque non sono trattati come gli altri nonostante la “normalizzazione” e il “trasformismo” di cui vengono accusati dal 2018 ad oggi dagli stessi che li hanno messi all’indice per oltre un decennio come populisti, sfascisti e crociati dell’antipolitica.

Inoltre per quello che contano, data la volubilità delle intenzioni di voto, secondo la rilevazione di Swg per il Tg La7 del 16 novembre, all’indomani degli Stati generali il M5S è cresciuto lievemente dello 0,4%: unica forza a segnalare un incremento insieme a FdI.

Che i 5S non siano come gli altri e non intendano diventarlo pur di “rimanere attaccati alla poltrona”, devono dimostrarlo con una sola voce e soprattutto con comportamenti conseguenti: rompere il silenzio, come hanno iniziato a fare, sui voti azzurri – peraltro non indispensabili e tutt’altro disinteressati di B., accolti con giubilo da mezzo Pd e da Renzi tutti felicemente incamminati sulla via di un nuovo Nazareno.

Quale possa essere il tenore del dialogo con i rappresentanti nazionali e locali di Fi, implicati troppo spesso in inchieste che vanno oltre la corruzione – come è emerso in queste ore con l’arresto del presidente del consiglio regionale calabrese, già assessore regionale di Fi fino al 2014 per concorso esterno e voto di scambio con la ‘ndrangheta – lo lasciamo architettare a Goffredo Bettini.

Quanto a Zingaretti, che a SkyTg24 ha detto che “Non esiste un’ipotesi di cambio di maggioranza, né di un coinvolgimento di Fi nel governo” con la precisazione che “i primi a dirlo sono quelli di Fi”, gli andrebbe solo ricordato che i primi a dirlo chiaro e tondo dovevano essere quelli del Pd; e che fidarsi delle dichiarazioni di B. & co. più che patetico è ridicolo.

Va registrato positivamente che almeno su una questione dirimente come l’incredibile, ennesima riabilitazione di B. quale interlocutore necessario nell’emergenza, se non compagno di maggioranza o di governo da parte del Pd, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista si sono espressi pur con toni differenti in modo univoco: il ministro degli Esteri: “Oggi come allora non risponderei al telefono”, e il cittadino ‘pasionario’ su Facebook: “Stare lontano dall’immoralità è un dovere morale, perché l’immoralità è come il letame”.

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