Il 2020 è un anno sciagurato. Non credo ci sia bisogno di approfondire questa affermazione. La sensazione però è che, sotto il punto di vista delle canzoni, si stia dimostrando importante. Non so se le due cose siano collegate. Intanto, di seguito, un brano che mi sembra possa giustificare quest’idea. Dopo Calcutta di Pino Marino, proseguo la serie di scritti su singoli brani recenti che ho trovato particolarmente interessanti. Chiamerei questa serie “Canzoni dell’anno”.

La canzone di oggi è L’abisso di Francesco Bianconi, contenuta nel disco Forever, uscito lo scorso 16 ottobre, prima opera da cantautore solista del leader dei Baustelle. Parla dell’uomo di fronte all’idea della morte, alla paura del niente, del buio, del Male. Roba da poco insomma. Tra tutte le canzoni uscite negli ultimi mesi è forse quella che a mio avviso parla meglio di alcune sensazioni che stanno purtroppo caratterizzando questo delicato momento storico.

L’impianto melodico del brano ruota intorno a una cellula ritmica semplice: un metro giambico molto pulito, scandito in maniera marmorea, con la voce del cantautore che emerge calda, sincera e onnisciente. Niente fronzoli, comunicazione diretta e nuda. Il giambo è il piede dell’epica, del dinamismo, della lotta, della battaglia; ha un ritmo ascendente, che incede. Tale avanzata ritmica decisa contraddice però il contenuto di fragilità di gran parte della canzone, che è acuito, durante il percorso, da un cambio di tonalità.

Alla fine però, con un movimento di ribellione, arriva la soluzione all’apparente scacco matto che vorrebbe darci la morte. Si realizza con la frase “mi sta sul cazzo fingere”, passo straniante rispetto al registro aulico che il dettato poetico ha tenuto fino a quel punto, ma indispensabile per sparigliare, per liberarsi dal giogo, apparentemente irrisolvibile, della paura di vivere in attesa dell’impronunciabile trapasso.

Dopo quel verso c’è un’estrema, decisiva e imprevista modulazione in ascesa, felicemente contrastata dalle parole “discendo nell’abisso, finalmente”, grido liberatorio sconsiderato e scintillante ribellione umana di fronte all’ineluttabile. Ribellione che si conclude, mentre ci si addentra nella notte, in un amplesso: unico modo che ha l’essere umano per scongiurare l’effimero. Non potrebbe essere altrimenti. Chapeau.

Anche sotto il punto di vista narrativo, la canzone è un piccolo gioiello, perché parte da un racconto soggettivo, un’occasione, un episodio di vita personale, che viene confermato dal fatto che l’io poetico dica “mi pagano per scrivere”. In quel momento l’ascoltatore è certo che Bianconi stia parlando di se stesso. A un tratto però il tutto si riveste di assolutezza, quando, all’inizio della seconda parte del brano, arrivano le parole “re di Francia”: il respiro del pezzo diventa universale, riguarda tutti.

A quel punto – solo a quel punto – il cantautore può permettersi di nominare elementi presenti nell’immaginario collettivo, sia quelli biblici (Leviatano) che quelli moderni (Babadook) senza risultare ampolloso, gratuitamente sofisticato e autoreferenziale: da lì in poi il patto con l’ascoltatore è chiaro, è pacifico che ci si stia riferendo alla condizione dell’uomo di ogni tempo di fronte all’abisso. O, almeno, che si parte dal particolare per arrivare al generale. Tutto questo dona un senso di soddisfazione: chi ascolta è appagato dal movimento narrativo, non fa fatica a seguire la storia raccontata, come succede solo nelle grandissime canzoni.

Il tutto produce un pieno senso di empatia quando il canto ripropone – modificandolo in maniera decisiva – il verso “conosco bene gli uomini”, con la confessione della propria fragilità, che è quella di tutti. A questo punto, quello che nella prima parte sembrava un’ostentazione da mestierante della scrittura si trasforma in una prova di apprezzabile autenticità.

L’energica ribellione finale, inoltre, è il giusto approdo che fa deflagrare tutta la potenza accumulata: titanismo irragionevole e ribelle, indispensabile per salvarsi la vita e, così, illudersi di sfuggire alla morte. Non è un caso che alla fine Bianconi usi un linguaggio bellico, nel passo “sono qui per arruolarmi, amare e piangere con te, per vedere quale guerra scoppierà”: si dà estrema coerenza all’unione tra parole e musica, alla melodia dall’incedere giambico, epico. Si onora finalmente il campo di battaglia e tutto prende il proprio posto, forma e contenuto. Una canzone che resterà.

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