Al contrario che negli altri Paesi sviluppati, in Italia le ferite della crisi del 2008 non si sono mai rimarginate. Il Paese è arrivato alla pandemia con livelli di reddito pro capite più bassi rispetto a quelli che si registravano nel 2007. E le maxi misure di sostegno all’economia varate dal governo con i decreti cura Italia, Rilancio e Agosto – complici anche i ritardi nell’erogazione di alcuni aiuti e il fatto che la crisi ha colpito soprattutto i lavoratori già in partenza più “deboli– non sono bastate per evitare un crollo del reddito reale familiare pro capite. Il risultato è nei numeri messi in fila dall’Ocse: nel secondo trimestre 2020, quello del lockdown, l’indicatore chiave per valutare il benessere di un nucleo (è calcolato sottraendo dal reddito tasse e contributi e aggiungendo benefit e sussidi) è crollato del 7,2% mentre, calcola l’organizzazione, negli altri Paesi sviluppati è addirittura aumentato del 5,3% medio grazie agli aiuti statali.

Nella maggior parte dei paesi membri dell’organizzazione il reddito disponibile delle famiglie, che secondo l’Ocse dà un’approssimazione migliore rispetto al pil pro capite delle “risorse a disposizione per comprare beni e servizi e risparmiare per il futuro, ha avuto performance migliori rispetto all’andamento dell’economia nel suo complesso. In Canada e negli Stati Uniti è addirittura cresciuto dell’11 e del 10,1% a fronte di un pil che calava dell’11,7 e 9,1% (anche se negli Usa la situazione è cambiata nel terzo trimestre, quando si è esaurito il piano di aiuti varato in aprile). In Germania, Francia e Regno Unito è calato, ma di percentuali (-1,2%, -2,3%, -3,4%) molto inferiori rispetto alla discesa del prodotto (-9,8, -13,8, -19,9%). La media Ocse mostra una distanza di ben 15 punti tra pil – calato del 10,6% – e reddito familiare.

L’Italia, in questo quadro, ha il record negativo su entrambi i fronti. Mentre il pil si inabissava del 12,8% (del resto siamo stati il primo Paese occidentale a fermare tutte le attività non essenziali), anche il reddito disponibile delle famiglie lo seguiva. Nonostante il forte aumento dei trasferimenti pubblici (vedi grafico). Come si spiega? “Da un lato è possibile che il dato rifletta i ritardi nell’arrivo dei trasferimenti, in particolare la cassa integrazione che magari a qualcuno è arrivata solo a luglio”, commenta l’economista Fedele De Novellis, partner della società indipendente Ref Ricerche. “Dall’altro va ricordato che c’è una parte del mercato del lavoro non protetta: quella dei contratti a termine in scadenza (per i quali il blocco dei licenziamenti non valeva, ndr) degli autonomi e del sommerso“. La parte più debole, insomma. Non a caso, come evidenziato da Bankitalia nella sua relazione annuale, finora le famiglie che hanno perso più reddito, in percentuale, sono state proprio quelle che partivano da livelli più bassi.

“In ogni caso una certa efficacia delle politiche c’è stata anche in Italia”, continua De Novellis, “perché il calo è stato inferiore rispetto a quello del pil”. In generale però è indubbio che lo choc della pandemia ha avuto e avrà conseguenze molto differenziate a seconda del settore di attività. “Ha colpito in modo micidiale per esempio il turismo, che negli anni scorsi è andato molto bene e ha creato tanti posti magari precari. E ancora: nelle grandi città la possibilità dello smart working ha protetto le attività amministrative, professionali e finanziarie, mentre il Covid ha spiazzato i lavoratori che si occupano di servizi alle famiglie, i camerieri, chi fa le pulizie negli uffici… insomma lavoratori più poveri e meno tutelati. Ci sono quindi segmenti poco toccati e altri che rischiano di subire un danno permanente. Il che significa che dopo il vaccino, quando la situazione si normalizzerà, “bisognerà fare i conti con cambiamenti strutturali. E pensare a sostegni mirati per le persone che avranno perso definitivamente il lavoro e andranno aiutate a trovare un’occupazione in mansioni simili, visto che è davvero difficile riqualificare le persone, soprattutto quando hanno una certa età”.

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