di Giovanna Rezzoagli Ganci *

Sin da piccoli era usuale, nelle famiglie, essere educati a svolgere il proprio dovere, prima scolastico e poi lavorativo, per conquistare prestigio sociale e morale, almeno fin quando questo senso del dovere era un valore della nostra società. Poi? Oggi, vale a dire il “poi”, cosa resta?

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Lo era e lo è ancora ma oggi sarebbe opportuno aggiungere “dignitoso”. Un lavoro dignitoso implica non solo uno stipendio che permetta di vivere ma anche di non dover scegliere tra lavoro e famiglia, salute e sopravvivenza, rispetto della legalità o aggirare le norme a proprio vantaggio, della propria moralità.

Oggi non solo è considerato un lusso avere un posto di lavoro stabile, retribuito dignitosamente, garante dei più elementari diritti a propria tutela; oggi per tanti è già un lusso averlo, un lavoro. Quando le certezze svaniscono può succedere, e succede, che i diritti diventino aleatori a fronte della necessità di far fronte alla sussistenza materiale di se stessi e della propria famiglia.

A quale prezzo è spesso noto solo a chi vive determinate realtà. Il concetto di lavoro usurante è noto ai più soprattutto per le connotazioni fisiche che implica, ma non si possono trascurare quelle psicologiche verso cui l’attenzione è spesso bassa.

Consideriamo le professioni sanitarie, specialmente quelle a diretto contatto con situazioni difficili e che si svolgono spesso su turnazione non di rado molto pesante come l’infermiere, Oss e Asa; queste professioni sono ad alto rischio burnout, in alcuni casi reso più complicato dalla Sindrome da Istituzionalizzazione.

Questa condizione non colpisce solo chi è istituzionalizzato per eccellenza, come lungodegenti o carcerati: subdolamente si insinua nei gruppi di lavoro, nei reparti, nelle case di cura, in ogni comunità lavorativa. Nessuna forma di prevenzione viene ad oggi attuata e, conseguentemente, nessun supporto viene fornito agli operatori “bruciati”, vittime essi stessi di una sindrome sociale della quale molti ignorano persino l’esistenza.

Si inizia a depauperare involontariamente le persone della loro individualità, tutti i pazienti diventano simili e fastidiosi, tutti causano fatica e rappresentano un peso. Comincia così, per stanchezza, preoccupazione, paure e incertezze. Comincia sempre così. Intercettare quanto prima questa condizione e, nella più ottimistica ipotesi, prevenirla sarebbe auspicabile diventasse un vero e proprio dovere del datore di lavoro.

Prendiamo poi ad esempio un mestiere apparentemente non a rischio burnout: l’insegnante. Si tratta di una professione di prestigio, con un enorme rilievo sociale, appagante. Ma è ancora vero? Se si parla del passato lo è certamente più di oggi. Non è mai stato facile relazionarsi con i giovani, o giovanissimi discenti, ma almeno sino a non troppi anni or sono era assodato il sostegno della famiglia nel difficile ruolo di educare ed insegnare; ora no, affatto.

La figura del docente oggi è svilita e impoverita, ma soprattutto l’insegnante oggi è spesso “il nemico” che frustra ancor più il ruolo genitoriale. Non sono più rari i casi di minacce, di offese verso chi insegna e tutto ciò porta a una condizione di costante tensione e allarme, e oltretutto mancano sostegni e supporto dal punto di vista psicologico.

Sempre colpevole il docente che diventa insofferente o reattivo? Se superficialmente ed istintivamente la risposta è scontata, andando ad indagare oltre le apparenze non di rado si può percepire una realtà di impotenza e di sopruso. Mai generalizzare certo, ma da nessun punto di vista. Quanti sono i genitori che sono disposti a mettere in discussione il comportamento dei figli, specie se in gruppo? Posso senz’altro affermare che sono in numero inversamente proporzionale a quello di chi sa che al di sotto dei 14 anni un minore è non punibile per nessuna azione.

Discorso sociale complesso con ramificazioni e infiltrazioni in contesti sempre più ampi che non è più possibile mettere da parte.

La salute del singolo come valore sociale? Sì, certamente. Quando si abbandona il singolo, inizia a corrodersi tutto il sistema in cui tutti noi riponiamo fiducia e di cui ciascuno di noi è parte integrante.

* Counselor professionista, conduttrice di gruppi di auto-aiuto e psico-attivanti per pazienti istituzionalizzati e geriatrici. Il mio obiettivo è contribuire a creare una cultura che migliori l’approccio socio-culturale verso la salute mentale. Un obiettivo importante è portare nelle Istituzioni la prevenzione e la conoscenza delle problematiche connesse all’istituzionalizzazione.

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