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L’Arabia Saudita promuove l’emancipazione delle donne, ma cinque attiviste sono in carcere

L’Arabia Saudita promuove l’emancipazione delle donne, ma cinque attiviste sono in carcere
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“La diversità di genere è una priorità per il B20”. “La diversità di genere fa bene agli affari”. “L’emancipazione delle donne dev’essere in cima all’agenda”.

Queste e altre bellissime dichiarazioni si trovano negli atti ufficiali del Business Twenty (B20), “il dialogo ufficiale tra il G20 e la comunità degli affari”, organizzato il 26 e 27 ottobre dall’Arabia Saudita in vista del G20, il forum delle principali economie mondiali che si terrà il 21 e 22 novembre.

Siamo di fronte all’ennesima farsa prodotta dalla narrativa ufficiale delle “riforme” e della “modernizzazione”, le parole d’ordine della campagna di pubbliche relazioni guidata dal principe Mohammed bin Salman. Dietro questi specchietti per le tante allodole che mantengono strettissimi rapporti con la monarchia saudita, c’è una realtà fatta di repressione e di carcere, che vede dietro le sbarre le vere promotrici delle riforme.

Loujain al Hathloul, Nassima al-Sada, Samar Badawi, Maya’a al-Zahrani e Nouf Abdulaziz sono state protagoniste di importanti campagne per i diritti delle donne, tra cui quelle per il diritto alla guida e per la parziale fine del repressivo sistema del tutore maschile. Sono in prigione dalla primavera del 2018, accusate di “aver cercato di minare la sicurezza e la stabilità del regno e l’unità nazionale”.

Loujain, dopo mesi di isolamento, dopo la tortura con le scariche elettriche, dopo le molestie e la violenza sessuale, ha intrapreso negli ultimi giorni uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di comunicare con i suoi familiari.

Se le autorità saudite fossero serie quando parlano di diversità di genere e di emancipazione delle donne, Loujain, Nassima, Samar, Maya’a e Nouf non dovrebbero stare in carcere.

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