Come era facilmente prevedibile, il partito repubblicano ha preferito perdere l’anima, meglio confermare di averla persa, piuttosto che perdere l’occasione di prolungare la sua trumpizzazione al di là, potenzialmente molto al di là, della possibile sconfitta politica del 3 novembre.

La nomina sul tamburo di Amy Coney Barrett, appoggiata anche da quei pochi senatori repubblicani scettici della prima ora, alla fine incuranti del possibile contraccolpo sull’esito delle presidenziali, ma anche della lotta per la personale riconquista dei seggi in ballo tra una settimana, dimostra l’importanza che la costituency repubblicana attribuisce alla nuova, schiacciante maggioranza alla Corte Suprema. A quello che potrebbe essere il suo assetto, certo per tutta la presidenza Biden, ma vista l’età dei nuovi nominati da Trump per tutta la prima metà del secolo.

Importanza che va molto al di là della possibile battaglia legale che, salvo un epocale landslide a favore di Biden, inizierà ad urne appena chiuse per stabilire la validità dei risultati postali. E non solo per l’ultima parola che la Corte può avere, nella complicata legislazione federale americana, su temi etici, che noi diamo per acquisiti ma che tali non sono, pensate alla Polonia.

Il diaframma che separa gli Usa dalla Gilead della distopia immaginata dalla Atwood, sembra una muraglia ma è fragilissimo. Basti ricordare che non è una legge federale, ma solo l’interpretazione dei valori di una sentenza a decidere del diritto all’aborto. Non solo. Ci sono e ci saranno moltissime delle possibili leggi che una amministrazione democratica, e il programma elettorale di Biden per quel che è noto, dovranno mettere a punto per affrontare prima la battaglia con la pandemia e poi quella per le sue conseguenza economiche che possono cadere sotto la scure della Corte.

Non stiamo inventando nulla. E’ già accaduto a Roosevelt con la legislazione del New Deal e solo uno scontro politico violentissimo con la minaccia di mettere mano alla struttura della Corte indusse poi i giudici, formati nella ed espressione della precedente epoca, a lasciare passare quei provvedimenti che salvarono l’America dalla Grande Depressione.

Ed infatti oggi già si parla di questo. Di portare i giudici da 9 a 11 o addirittura 13. Oppure di inserire un limite di durata del mandato, oggi a vita. Nessuna delle due riforme impatterebbe nelle norme costituzionali, e in caso di una vittoria anche al Senato sarebbe possibile vararla. Ma sarebbe in sé, una dichiarazione di fallimento del meccanismo di check and balance. Un lascito avvelenato del trumpismo.

Come avvelenato è il 6 a 3 attuale, che nulla ha a che vedere con gli effettivi equilibri ideologici del paese, perché sappiamo che Trump ha perso il voto popolare nel 2016 e certamente lo perderà in maniera più netta il 3 novembre, anche se dovesse ritrovarsi di nuovo presidente per il meccanismo dei collegi elettorali degli Stati.

Avvelenato come è avvelenato l’originalismo di cui la Barrett, pupilla di Antonin Scalia, è sostenitrice. Una Costituzione imbalsamata in quello che pensavano gli estensori di fine Settecento. Di un mondo fatto di schiavi e di donne costituzionalmente senza diritti, e che quei diritti hanno potuto avere solo “interpretando” evolutivamente il testo. E la decisione dei repubblicani di forzare la mano, dopo aver negato lo stesso potere ad Obama, mette allo scoperto la fragilità intrinseca di un sistema che può sopravvivere solo nel reciproco rispetto delle regole del gioco.

Perché fino a quando, altrimenti, può reggere una nazione che, di fatto, equipara il potere di 40 milioni di californiani a quello di seicentomila abitanti del Vermont, in una distorsione “originalista” di un sistema nato prima che tutto il discorso sulla democrazia moderna e i suoi strumenti si sviluppasse?

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