A New York per una trasferta di lavoro, si è ammalato di Covid-19 ed è finito in ospedale per 17 giorni. Il risultato: un conto da 100mila dollari. È la storia di Francesco Persico, vicesindaco 33enne di Azzano San Paolo (Bergamo), che lavora come elettricista. Il 28 febbraio era partito per gli Stati Uniti per lavorare a un grattacielo insieme ad altri colleghi e due meccanici.

Il racconto della sua malattia e degenza all’ospedale Mount Sinai West è sulle pagine del Corriere della Sera: tutto inizia con la febbre, comparsa a una settimana dalla partenza. Poi 3-4 giorni di tachipirina e mal di testa. La domenica sta bene e va a una partita di basket coi colleghi, ma il giorno dopo la situazione peggiora. È in albergo con 41 di febbre: dall’hotel non chiamano il medico, ma arrivano i sanitari del 911 (il nostro 118), coperti e bardati come abbiamo visto durante l’emergenza.

È il 9 marzo: Persico arriva in ospedale, gli viene dato l’ossigeno, arriva in terapia intensiva. Quando viene dimesso il 25 marzo c’è conto da pagare: “Centomila dollari di ospedale più 2.500 per gli 800 metri in ambulanza. Per fortuna, e ringrazio la mia azienda, ero assicurato ma in quel momento il timore era forte anche a casa, con il costo di 8mila dollari al giorno in terapia intensiva“. Un’assicurazione che rischiava di non coprirlo perché, si leggeva in una clausola, il rimborso non ci sarebbe stato nel caso l’Oms avesse dichiarato la pandemia. Cosa che viene dichiarata l’11 marzo, ma fa fede la data del ricovero: due giorni prima.

Al Corriere Persico racconta anche quali pietanze venissero servite in corsia: “Hamburger e patatine fritte, e pizza con il ketchup in terapia intensiva. Non potevo mangiarli, ho perso 12 chili, appena uscito sono andato al supermercato a comprare del cibo”. Il ritorno a casa è stato possibile soltanto il 4 aprile, a bordo di un volo Alitalia “per il rimpatrio dei connazionali”. E una volta atterrato, ha fatto il primo e il secondo tampone rispettivamente il 15 e il 22 aprile.

A mesi di distanza e alla luce della sua esperienza che l’ha costretto anche a rimanere lontano dalla sua famiglia, dice, “il fastidio più grande è chi prende questo virus alla leggera, i negazionisti. Non ci sono passati, per forza. Ad Azzano in tre mesi abbiamo avuto cento morti”.

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