Dalla fine degli anni 60 in poi, in Occidente si è sviluppata una grande fascinazione di massa per la cultura indiana: improvvisamente sono diventati di moda i cibi dai colori vivaci e i sapori speziati, le tinte sgargianti dei sari, le note ipnotiche del sitar. Una fascinazione spesso superficiale, che ha talvolta ridotto una civiltà millenaria a uno stereotipo esotico e, talvolta, caricaturale. Si tratta, al contrario, di un giacimento straordinario di conoscenza e bellezza da affrontare con rispetto e competenza.

Pensiamo alla concezione dell’arte: non una mera espressione estetica, ma il vertice di una civiltà, una sintesi vertiginosa, derivata nei secoli da contaminazioni reciproche di culture diverse (pensiamo solo alla grande dialettica tra Induismo e Islam durante il periodo della dinastia Moghul). Una concezione ieratica, sacrale, connessa profondamente al significato spirituale dell’esistenza. Come scrive il grande studioso Ananda Kentish Coomaraswamy ne Il Grande Brivido (Adelphi): “Dobbiamo ricordare che in origine tutte le operazioni artistiche erano dei riti, e che lo scopo del rito […] è di sacrificare l’uomo vecchio e di farne nascere uno nuovo e più perfetto.”

Importante è anche ricordare, come sancisce lo studioso Alain Daniélou (figura straordinaria e controversa, fratello di un cardinale, convertito all’induismo shivaita), nel suo saggio fondamentale Śiva e Dioniso (Astrolabio): “Nella filosofia śivaita il divino è definito come “ciò in cui gli opposti coesistono”. Troviamo la stessa definizione in Eraclito. “L’unione degli opposti” (coincidentia oppositorum) era per Nicola Cusano la meno imperfetta definizione di Dio.”

Però, in questa necessaria e proficua traduzione culturale, bisogna tener conto di alcune differenze. Roberto Calasso ne L’Ardore (Adelphi) chiarisce: “Applicare la nozione occidentale di “simbolo” al mondo vedico condurrebbe rapidamente a una condizione di generale insignificanza per eccesso di significati. E di fatto non esiste in sanscrito una parola che corrisponda con precisione a “simbolo”.” D’altro canto, l’etimologia della parola “yoga” (“giogo”, “unione”) è affine a quella di “simbolo” (“mettere insieme”).

In questo, senso potremmo dire che in sanscrito non esiste propriamente il concetto di simbolo (ciò che per i medievali univa la realtà visibile terrena a quella invisibile spirituale) proprio perché in quella visione spirituale di per sé la realtà tutta è simbolo, ovvero figura dell’unione invisibile sottesa al Tutto, come dichiarato nella principale corrente della filosofia indiana, l’Advaita Vedanta (letteralmente, “la conoscenza della non-dualità.”)

Tutto ciò che pertiene all’arte indiana classica ha, dunque, un profondo significato spirituale. Solitamente, in Occidente ci sono due approcci all’arte indiana: uno scettico e pieno di pregiudizi; l’altro ammirato ma comunque superficiale, che si accosta con meraviglia alla straordinaria abilità musicale degli artisti come se si trattasse di una performance atletica, quasi un’esibizione circense. C’è molto di più da scoprire. Un concetto fondante dell’arte indiana, intraducibile nelle lingue occidentali, è Marga Samgita, ovvero l’arte come “percorso” per ottenere la liberazione dal samsara (il ciclo delle morti e rinascite) attraverso la sintesi di musica strumentale, canto e danza.

Per approfondire con consapevolezza il significato profondo dell’arte indiana, segnalo una serie di incontri che si terranno in tutta Italia, iniziati nelle settimane scorse alla Tenuta Alfei (a S.Angelo Romano, alle porte della Capitale), guidati da tre artisti straordinari, dal prestigioso profilo accademico: Valeria Vespaziani, danzatrice di Bharata Natyam e Khatak apprezzata a livello internazionale; Leo Vertunni, astro nascente del sitar (raccomandiamo agli appassionati del genere, e non solo, il bellissimo disco del Jugabandi Trio, Confluence, dove emerge il suo talento cristallino); Manish Madankar, tablista d’eccezione, allievo ed erede di alcune fra le più grandi eccellenze musicali indiane.

I tre artisti hanno dato vita al progetto Samanvay, il cui nome ha un significato in perfetta linea con la tradizione sacra dell’arte indiana: “solidarietà, associazione fra gli uomini”. Un progetto culturale che incarna perfettamente le parole del grande regista Andrej Tarkovskij: “L’arte esiste e si afferma là dove esiste quell’eterna e insaziabile nostalgia della spiritualità, dell’ideale, che raccoglie gli uomini attorno a essa.”

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