Napoli, ottobre 2020.

Sono diventata docente di ruolo nell’anno della pandemia. Dietro la mascherina, i colleghi hanno per me sguardi che sorridono e una frase gentile: “Tu sei nuova? Benvenuta, peccato per l’attuale situazione…”. Qualcuno mi fa persino gli auguri; tutti, un po’ mortificati, subito si congedano. D’altra parte, non è il caso di sostare nei corridoi.

Sono entrata in una classe piena di alunne e alunni che non vedevano un’aula scolastica da lungo tempo: sono stata il primo esemplare di docente in carne e ossa che è comparso davanti ai loro occhi. Al mio ingresso, come in automatico, i ragazzi sono scattati in piedi. Avevo dimenticato questo gesto, parte dei riti imperituri della scuola, di quelle azioni e quei tempi scanditi dal suono della campanella.

E, allora, ho cercato di riprendere anch’io l’antica pratica dell’ora di lezione sperando che loro si ritrovassero nella consuetudine e si rassicurassero in una parvenza di normalità, nonostante i banchi distanziati, le frecce sul pavimento, il venerabile barattolone di gel disinfettante per le mani che troneggia sulla cattedra. Ho fatto l’appello e mi sono presentata a studentesse e studenti che non conosco, in una scuola che non conosco, in una città che, effettivamente, proprio bene non conosco. Tutto per me è nuovo, o meglio, è noto solo in parte, così come solo in parte è visibile il volto delle persone intorno a me: una metà è palese, l’altra metà è oscura.

Come in un gioco, immagino come continuino i visi dei miei alunni sotto le mascherine. Lo faccio anche con i passanti, in fila al supermercato, nei vagoni della funicolare: completo le facce con l’immaginazione. A un certo punto, un ragazzo ha sollevato per un istante la sua protezione: è spuntato un baffo che onestamente non avevo previsto. Anche i colleghi, che ho conosciuto nei collegi dei docenti su Google Meet e nelle riunioni di dipartimento online, ora, vis à vis, mi disorientano: più alti o più magri di come apparissero sullo schermo, mi spiazzano come gli incontri dal vivo con gli attori.

In aula, sopra le mascherine, vedo file di occhi sgranati. Un ambiente familiare è diventato improvvisamente perturbante. Domando agli alunni come si sentano a tornare in aula. Una ragazza mi risponde che è po’ sotto shock, un altro mi dice: “Prof, potremo raccontare ai nostri figli che siamo andati a scuola durante una pandemia!”. “A me la scuola è mancata!”, confessa una voce all’ultimo banco. Li ascolto, provo a rassicurarli, li incoraggio, ricordo loro le misure di sicurezza da usare, ma anticipo anche i nomi degli artisti che studieremo quest’anno, le opere e i musei, dimostrando che un po’ di futuro possiamo ancora immaginarlo.

Parlo agli alunni che sono davanti a me e, in contemporanea, agli altri che mi seguono da casa, via streaming, poiché nella mia scuola si pratica la didattica digitale a distanza: una parte della classe è presente, mentre l’altra parte, a turno, segue le lezioni da casa. In questo modo, non siamo in troppi in una stanza e possiamo rispettare il distanziamento.

Verso la fine dell’ora, intraprendo addirittura un discorso sulla prospettiva geometrica e così, con in testa l’immagine dell’anziana professoressa di Amarcord, realizzo che ho cominciato a spiegare. I miei alunni non sanno che essere davanti a loro mi sembra un evento eccezionale, che sono emozionata, che igienizzo le mani in maniera compulsiva, che ho paura di ammalarmi e contagiare la mia famiglia, che in sostanza non incontro più gli amici, che ho imparato ad aprire le porte con i gomiti e a chiuderle con la punta della scarpa.

Non immaginano che questo – proprio questo – sarà il mio anno di prova, che dovrò sostenere un esame, che un comitato giudicherà se sono all’altezza del ruolo che ricopro più di quanto non stiano già facendo loro, adesso, seduti di fronte a me, mentre mi ascoltano. Anch’io, in fin dei conti, risulto decifrabile solo a metà. Agli studenti mostro la parte propositiva, quella angosciata la celo sotto la mascherina.

Dall’inizio delle lezioni, ho ricevuto molte telefonate di amici che mi chiedevano come fosse andato il primo giorno di scuola. Con alcuni forse è stata la prima volta in cui abbiamo parlato a lungo dell’insegnamento. Ne sono stata felice. Ho risposto alle domande, ho raccontato la situazione in classe, lo stato d’animo degli alunni, le disposizioni anti-Covid, la procedura per fare il tampone, la normativa in caso di focolaio. “E tu?” a un tratto mi ha chiesto un’amica. Io? Beh, io speriamo che me la cavo.

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