Trentaquattro anni sono passati. Ma ora il “vinile” completa la sua rivincita sul “cd” che avrebbe dovuto decretarne la completa sparizione. La vendetta è un piatto che gusta meglio freddo. Secondo i dati della Recording Industry Associatin of America nei primi sei mesi del 2020 negli Stati Uniti si sono spesi 232 milioni di dollari per dischi in vinile e 130 milioni per i compact disc. Per i vecchi “LP” si tratta di una risalita che parte da lontano, il minimo storico di vendite fu toccato nel 2005 con vendite per appena 14 milioni nell’intero anno.

A differenza dei Cd, che hanno pagato lo scotto della chiusura dei negozi legati alla pandemia, i vinili hanno mantenuto un buon trend di vendita, nonostante un lieve calo nel secondo trimestre dell’anno. Probabile che abbia aiutato anche l’uscita, su questo tipo di supporto, di album storici come Abbey Road, dei Beatles. Certo è che da oggetto di nicchia riservato ad una ristrettissima schiera di appassionati e nostalgici, il vinile si è via via trasformato in prodotto ambito e di moda, grazie a caratteristiche che riescono a restituire un suono considerato più “ricco” rispetto alla “freddezza” del laser. Una migliore manifattura del disco e tecniche di incisione più sofisticate hanno peraltro migliorato di molto qualità e durata del prodotto finale.

Naturalmente in questi trenta e passa anni nell’industria discografica è successo di tutto, da un punto di vista tecnologico. I supporti fisici, cd e vinili appunto, contano ormai appena per il 7% degli incassi totali. A farla da padrone sono ormai servizi di streaming e formati mp3 o superiori. Qui si ragiona in miliardi e non in milioni. Nel primo semestre dell’anno la musica in streaming ha registrato ricavi per 4,8 miliardi di dollari con un incremento del 12% rispetto allo stesso periodo del 2019. In deciso calo i download digitali che si sono fermati a 351 milioni di dollari, 100 milioni in meno dell’anno prima.

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