Centenario al museo per Mazda. La marca giapponese festeggia il secolo di vita e sceglie Augsburg per la celebrazione europea. Perché Augsburg, in Italia più conosciuta come Augusta, fondata 2035 anni orsono, ai tempi dell’imperatore Augusto? Perché nella città della Baviera i tre fratelli Frey, concessionari del nipponico brand dal 1978, hanno aperto da qualche anno il Mazda Classics Museum.

I Frey hanno accumulato circa 120 veicoli Mazda – un paio valgono oltre 100 mila euro, pare – e fa un bell’effetto ammirare la piccola R360 Coupé del 1960 (la prima vera macchina della Casa) accanto alla Cosmo e alle altre auto spinte dal motore Wankel e le serie speciali della fortunatissima MX-5, la sportivetta che oltre 30 anni fa ha ridato vita al segmento delle piccole roadster, vicine alle berline sportive carrozzate da Bertone e “ispirate” da un giovane Giorgetto Giugiaro. Non mancano ovviamente le ultime novità della gamma – il grano, d’altronde, i Frey Brothers lo fanno vendendo Mazda attuali, nell’ex deposito dei tram distrutto, insieme a grande parte della città di Augsburg, dai bombardamenti alleati del 1944.

E’ d’obbligo soffermarsi davanti alla MX-30, la prima elettrica del brand di Hiroshima, che tornerà presto a far sventolare il vessillo visionario e innovativo ma sempre maledettamente complicato del motore Wankel: lo farà montando un piccolo rotativo con il compito di ricaricare le batterie necessarie a far marciare il motore elettrico. Meglio di niente, certo, ma può sgorgare la lacrimuccia se scatta il ricordo del trionfo a Le Mans o alla guidabilità pimpante delle RX-7 e RX-8 (ovviamente in bella mostra anch’esse al museo dei Frey).

Di tutte le marche giapponesi ancora vive e vegete, Mazda è sicuramente la meno allineata, la più stravagante. A cominciare dal nome. I signori Toyota, Honda e Suzuki l’hanno fatta semplice, battezzando le proprie creature industriali con il proprio cognome (vabbeh, Toyoda cambiò una consonante). Il fondatore della Mitsubishi ha optato invece per la parola che stava a significare “i tre diamanti”. Ma non ci sono dubbi che il premio per il nome più strano e, diciamolo pure, spirituale, se lo meriti proprio Jujiro Matsuda, il fondatore della Mazda. Perché, scrive Wikipedia, Ahura Mazda è il nome dato all’unico Dio, creatore del mondo sensibile e di quello sovrasensibile, della religione zoroastriana, che vorrebbe dire “Spirito che crea con il pensiero”, giacché Ahura, che deriva dall’antico avestico, si può rendere con “respiro vitale”, mentre Mazda proviene dalla radice indoeuropea “mendh” (apprendere). Capito tutto, vero? Bene.

Sorta per produrre sughero artificiale destinato all’industria navale di Hiroshima, l’azienda ha fatto dopo pochi anni rotta verso il settore degli utensili e dei macchinari per approdare nel 1931 al business motoristico, con il motofurgone Mazda Go. Alle quattroruote per il trasporto persone giungerà nel 1960, lo stesso anno in cui, in Europa, la NSU monta il primo motore rotativo realizzato sulla base dei brevetti dell’ingegnere tedesco Felix Wankel. E nel 1961 scoppia l’irresistibile attrazione di Mazda nei confronti dell’invenzione di Herr Wankel. A partire da quegli anni, oltre cento imprese motociclistiche, automobilistiche e aeronautiche, studieranno/sperimenteranno/prototiperanno propulsori influenzati dai rotori di Wankel. L’unica casa a produrre davvero e per molti anni motori rotativi sarà tuttavia solo proprio la Madza. Una magnifica ossessione, che ha reso unica la marca e incuriosito e attratto generazioni di ingegneri e impallinati dei motori.

Prima della visita al museo, i giornalisti presenti hanno potuto scorrazzare sulle colline bavaresi a bordo di alcune Mazda vintage. Il sottoscritto ne ha guidate quattro. Una sola Wankel, purtroppo, ma bellissima: la RX-7 Convertible del 1991 con guida a destra. Uno spasso. Elegantissima pure la 929 Coupé del 1977, una due porte dal look molto italiano. Niente male neppure la MX-3 con il V6 del 1994. Ma l’esperienza più emozionante è stata pilotare la 323, una cinque porte verde pisello del 1979. Romantica per il design datato, il volante smilzo, la leva del cambio sottilissima, le quattro marce. Emozionante perché, nonostante un tecnico mi avesse detto “occhio ai freni, funzionano così e così”, in realtà i freni sembravano messi peggio di quelli della Ferrari di Vettel un paio di settimane fa. Non c’era, tra le auto a disposizione la mitica Carol del 1962, un incrocio tra la Bianchina e la Ford Anglia. Quando l’ho vista, al museo, ho accennato canticchiando, a “Carol” di Chuck Berry (del 1958) e a “Oh Carol” di Neil Sedaka (del 1959), chiedendomi quale dei due brani avesse ispirato la Mazda nel dare il nome alla macchinetta. Nessuno dei colleghi ha reagito. Tutti troppo giovani, accipicchia. Spero abbiamo dato un’occhiata a YouTube.

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