Enrico Varriale ha vissuto il Processo del Lunedì in tanti modi diversi. Prima come semplice spettatore, poi come parte integrante della redazione, infine come conduttore, quando la Rai ha deciso di riproporre in versione aggiornata e corretta la creatura di Biscardi. Un’esperienza tanto forte quanto fondamentale nel percorso di crescita professionale di un giornalista che passo dopo passo è arrivato fino alla vice direzione di Rai Sport. Perché a lanciarlo è stato proprio Aldo Biscardi, che gli ha dato la possibilità di mettersi in luce grazie ai Mondiali del 1990 fino a diventare l’inviato di punta della sua trasmissione. E Varriale, pur non condividendo molte “storture” del Processo, ne ha sposato il senso più profondo: raccontare il calcio in maniera popolare e inclusiva. Una filosofia che si è trasformata nel punto di forza di un programma diventato un cult.

Il 15 settembre del 1980 andava in onda la prima puntata del Processo del Lunedì. Quarant’anni dopo, cosa ha rappresentato quella trasmissione per la Rai?

Io sono arrivato un po’ dopo, alla fine degli anni Ottanta. Quella prima puntata me la ricordo da spettatore ed è stata una piccola rivoluzione, ha rotto molti schemi, ha dato un punto di vista meno paludato e più attento a quelle che erano le dinamiche che interessavano lo spettatore. Ci sono state alcune situazioni, come il Calcioscommesse, che la squadra di Biscardi ha seguito con grande attenzione, e soprattutto in maniera diversa dagli schemi generali del periodo.

Una piccola rivoluzione, dunque

Sì, una rivoluzione che ha avuto il culmine nei Mondiali del 1990, che sono stati molto partecipati da parte mia. Lì sono nate alcune innovazioni che poi hanno preso piede qualche anno dopo. Penso alla possibilità di avere subito ai microfoni i protagonisti dei grandi eventi. Era una cosa mai vista. Dopo ogni partita avevo il commissario tecnico della Nazionale, Azeglio Vicini, che si fermava per mezz’ora ai nostri microfoni. Eravamo accampati accanto agli spogliatoi, così mi è capitato di intervistare Schillaci in accappatoio e tutti gli azzurri sfilavano davanti a noi, potevamo sentirli tutti.

La più grande innovazione del Processo?

Sicuramente il linguaggio. Alcune cose, le polemiche soprattutto, le trovavi anche sui giornali, ma in televisione le potevi vedere con uno stile molto diverso, meno “ufficiale”. L’idea è stata quella di allargare il calcio a tutte le platee e tutte le categorie, anche ai politici. Dietro c’era un grande lavoro perché le notizie venivano seguite come avveniva nella redazione di un giornale. Biscardi era molto esigente e ci teneva ore e ore su un pezzo. È anche per questo che la sua trasmissione è imitata ancora oggi.

Biscardi, però, non poteva essere imitato. Ha trasformato i suoi punti deboli in punti di forza

Lui aveva iniziato dal dietro le quinte, i primi collegamenti li fece addirittura dalla regia. Era una cosa innovativa, incredibile per quel tempo. E poi aveva capito che quella di caratterizzare la sua figura sarebbe stata una scelta vincente. Ci ha lavorato sopra e ha trasformato il suo accento in un marchio di fabbrica, pensi al famoso “Denghiu” di quella pubblicità. È diventato unico grazie anche alla sua capacità istrionica. E poi ha formato degli ottimi colleghi come Gianni Cerqueti, Marco Mazzocchi e tanti altri. Erano dei giovani che hanno seguito il suo modo di lavorare. Certo, poi c’erano anche delle cose discutibili.

Ci faccia un esempio

Beh il fatto di avere accanto una valletta muta non era esattamente il massimo. Non tutti eravamo contenti di quella scelta, l’abbiamo contestata. Eppure per quei tempi era pur sempre qualcosa di innovativo.

Il successo del Processo è dovuto anche al fatto che agli italiani piace parlare poco di tattica?

Credo che sia legato anche alla sua visione pop del calcio. L’idea di ragionare come nei bar ma con degli intellettuali è stato qualcosa di clamoroso. Il calcio ha questa caratteristica: ci si può dividere sulle opinioni, ma il parlare di pallone è una grande occasione di aggregazione.

Il pubblico era incollato alla televisione, eppure i critici proprio non digerivano il Processo

Non voglio fare polemica, quindi me la cavo con una battuta che fece all’epoca Biscardi: “Tutti vogliono venire al Processo, chi mi critica lo fa perché non viene invitato”. C’erano degli aspetti discutibili, ma l’innovazione portata dal Processo è palese. Durante i Mondiali del ’90 faceva quasi più share la trasmissione di Biscardi che la partita dell’Italia. I punti di forza della Rai erano il Processo al lunedì e Samarcanda di Santoro al giovedì.

Dica la verità, le famose liti del Processo erano già studiate?

Forse nella seconda parte della sua esperienza, ma mai quando Biscardi è stato in Rai. Lui chiamava dei professionisti in studio già sapendo il loro pensiero, sapeva che su determinati temi avrebbero preso posizioni forti. Era bravo a mescolarli. E in Rai il livello era altissimo, non poteva certo dettare una linea ad Andreotti o a Carmelo Bene. Lui era bravo scrivere dei copioni che gli altri si ritrovavano poi a recitare.

Biscardi disse che era stato lui a scoprirla. Che rapporto avete avuto?

Mi vuole chiedere se abbiamo litigato?

Non necessariamente

Sì a volte abbiamo litigato, questo è ovvio. Ma Biscardi mi ha dato una grande prova di fiducia. Mi aveva notato su una tv locale a Napoli, poi quando ero in ballo per un’assunzione ma fuori regione, a Trento o ad Aosta, lui mi propose di lavorare in una redazione che poi sarebbe stata implementata con Italia ’90. Da una parte avevo un indeterminato, dall’altra un contratto a tempo. Ma avevo visto che con Biscardi si poteva crescere. Così non ci ho pensato su. Lui era molto esigente, pretendeva molto, dopo otto ore di lavoro capitava di dover buttare tutto e ricominciare da capo perché la gerarchia delle notizie era cambiata. Ma lui è stato un capo molto umano, lo devo riconoscere.

Eppure Biscardi non ha avuto belle parole per il suo Processo, disse che gli “faceva senso”.

Ci siamo chiariti poco dopo. Diciamo che non è molto professionale chi gli ha fatto quella intervista. Biscardi stava lavorando in alcune realtà minori, magari sperava di tornare in Rai. Aldo ai miei occhi ha sempre una corazza positiva, fatta di gratitudine umana e professionale. Era in quell’età in cui si può dire tutto, ma soprattutto è lecito che a lui potesse non piacere qualcosa che avevo fatto io, come a me non piacevano alcune cose che aveva fatto lui.

Oggi il Processo è un format superato?

La seconda parte del Processo sì, quello della Rai no. Alcuni suoi capisaldi sono ancora attuali: l’idea che di calcio si può parlare con chiunque deve essere portata avanti perché si può chiacchierare di pallone in modo molto godibile anche con chi non è un esperto. Ora il rapporto con le società è molto più complicato, anche la Rai fa più fatica a esporsi.

Come è cambiata la narrazione calcistica in questi anni?

Con le pay-tv si è scelta una lettura diversa, molto tecnica. È assolutamente valida ma non può essere in linea con una tv generalista che vuole rendere il calcio qualcosa di ancora più popolare. Penso che ora sia complicato riproporre un processo come quello di Biscardi. Noi ci abbiamo provato per un solo anno. Ma secondo me quel tipo di approccio è da recuperare. La tattica è importante, bisogna dare una lettura specialistica del calcio, della sua economia, ma non può essere l’unica cosa.

L’eredità del Processo?

L’idea che è necessario rendere il calcio popolare, cosa che oggi stiamo facendo un po’ meno. Quando leggo le dichiarazioni di dirigenti illuminati come Zhang, che racconta quanto è difficile far innamorare le nuove generazioni, capisco che si tratta di un problema molto serio. Perché il calcio sta perdendo appeal, se dai una lettura molto tecnica, qualcosa si perde. Bisogna recuperare il racconto che c’è dietro. L’approccio non solo tattico e specialistico ma aperto al grande pubblico deve essere un must.