Il capitano della flotta russa era severo e aitante come un personaggio dostoevskijano, compromesso dal male, deducevi, senza alcuna ragione realistica. Era una fantasia. Il male non era precisamente la perdizione, era soltanto un passaggio, dunque non è esatto chiamarlo “il male”, il male, vuoto noiosissimo nella crudeltà che replica se stessa, nell’ovvietà, era la prova dentro cui smarrirsi.

E poi c’era l’altro passaggio, il più commovente, la raggiera luminosa, dentro finiva a rifulgere ogni deviazione, trasformata in un fragilissimo ravvedimento, ma bastava a contemplare un fatto misterioso. L’uomo nella sua caduta era un fatto misterioso, quel che accadeva dopo ancora di più. Avete mai visto un uomo risplendere nella brevissima resurrezione, alla fine del sentiero costellato da piccole croci? Tu sì.

Il capitano ti invitava a ballare. Posavi il vassoio in cucina. Azib rideva, il cuoco Azib, morto di alcol, sotto un’aiuola, come se fosse un escremento, riluttanza spregevole del mondo velocissimo e distratto. Il mondo dei sani propagava brillantezze opache e mortifere. Ti saresti arrampicata su barricate sbagliate, fosse la tua sola e ultima battaglia. Non ne avresti vinta una.

Oggi dici alla donna seduta sulla panca del grande parcheggio, la donna del polacco Tomek: gli mancherò. Lei non ti chiede nemmeno l’identità dell’uomo al quale ti riferisci. Lo avresti amato. “Credi all’amore per uno sconosciuto?”. La donna non risponderà. “Non è uno sconosciuto” aggiungi, “non più”.

Avevi 25 anni. Il capitano ti invitava a ballare. Azib rideva in cucina: vai sorella. Il club era nella penombra, le luci erano riverberi rossastri, inducevano alla dissolutezza. Edith Piaf nel grammofono cantava L’hymne à l’amour.

Il capitano aveva occhi grigi, obliqui come quelli di un kazako. Stringeva la tua vita sottile. La sua mano serrava la tua schiena, stringeva. Non riuscivi a guardarlo. Poi lo guardavi.

Che donna saresti stata? Ti chiedevi mentre il capitano ti guidava da un angolo all’altro della pista, nel club con i drappi alle finestre, sfiorando appena il vestito di velluto che frenava sui tuoi passi. Erano pensieri brevi, intuizioni che ti attraversavano sottilissime come la tua schiena. Intuizioni. Saresti stata una donna veramente un giorno?

Il capitano russo lo pensava forse o avrebbe rimediato lui. Dipendeva da te. Tornava al suo tavolo. Bevevano fino all’ultimo, vodka pura, la siberiana. E ti sentivi una donna allora, con gli occhi di quell’uomo addosso. Ne sentivi l’oscurità. Tuttavia non lo saresti diventata una donna. Avevi altro da fare. Qualcosa era in serbo per te. Ora capisci. Oggi, che pretendi l’amore di un uomo e che non riesci ad avere, oggi capisci cosa invece allora fosse in serbo per te.

Tu eri la madre, di un orfano, un diseredato. Nella tua ottusità, se riesci a smettere di dibatterti, indovineresti qualcos’altro, siamo piccoli agnelli, nella nostra stoltezza, ognuno di noi può darsi è un sacrificio che deve esser condotto al macello, l’esito è identico: la salvezza. L’un per l’altro: la salvezza. C’è un sentiero costellato di piccole croci, agnelli ignari del destino enorme, piccolo e enorme. Allora non dovevi chiedere e infatti non chiedevi. E perdonavi all’infinito, non sapevi fare altro che perdonare.

Il balordo ricordi? Voleva darsi fuoco davanti ai tuoi occhi. Lo hai perdonato. E oggi chiedi la ragione. Oggi pretendi l’amore di uno sconosciuto. Non è uno sconosciuto.

Hai visto moltissimo di questo mondo nella laidezza e nella tormentata poesia che vi soggiace, e tutto contiene. E dal davanzale in casa della creaturina il mondo ti raggiungeva quando ascoltavi la gente vivere laggiù in cortile e la vita ti sembrava polverosa, accecante, come le giornate d’estate, con le strade tumide ardenti, il cielo spalancato. Ne avevi paura, ne riconoscevi un suono o un’immagine che tornava, ne avevi paura. Accostavi le tende. Le parole risuonano adesso, ti ricapitolano significati che ne rincorrono altri.

Attraversi il grande parcheggio, indossi ballerine dorate con la punta consumata. Guardi al piano della creaturina. È un giorno d’estate.

(continua)

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