Una rivoluzione non può essere fatta con i guanti di seta. Perché è necessario abbattere, scarnificare, annientare. E, soprattutto, promettere. Lo sapeva Stalin, lo sa anche Pallotta, l’imprenditore di Boston che otto anni fa è sbarcato nella Capitale per riscrivere la storia giallorossa, ma che a Roma ha fatto la fine del marziano di Ennio Flaiano. Un amore sbocciato e poi tradito che si è concluso ieri, quando la bandiera a stelle e strisce si è trasformata in uno straccio bianco agitato in segno di resa. La rivoluzione culturale e sportiva annunciata dalla cordata americana non ha attecchito. E non solo per colpa di Pallotta. Con un comunicato lanciato nella notte si sono chiusi anni zeppi di contraddizioni, di milioni spesi sul mercato, di calciatori acquistati e rivenduti, di umiliazioni cocenti sul campo bilanciate da qualche vittoria scintillante, di polemiche per il cambio di stemma, di progetti per uno stadio impantanato nella burocrazia, di dissidi con i tifosi. Ma, soprattutto, di bacheche vuote mentre le dirette concorrenti (Lazio e Napoli) portavano a casa almeno qualche coppetta nazionale.

James Pallotta è stato l’uomo della grande illusione giallorossa. Così come lo era stato, nel suo anno di interregno, Thomas DiBenedetto. “La Roma è una principessa – aveva detto con la sciarpetta giallorossa intorno al collo appena arrivato nella capitale – noi vogliamo trasformarla in una regina. Vogliamo vincere subito lo scudetto“. Una frase che aveva acceso la fantasia dei tifosi. Anche se solo qualche giorno prima la Roma era in mano a Unicredit. Anche se la rosa era a fine corsa. La rifondazione è stata coraggiosa. Forse anche troppo: dodici nuovi acquisti (non tutti azzeccati) e squadra in mano a Luis Enrique, che fino a quel momento aveva allenato solo il Barcellona B. “Abbiamo voglia di mettere in campo una squadra che non subisca l’avversario e che voglia demolirlo in tutte le zone del campo, una squadra che giochi un calcio arrogante”, dirà Walter Sabatini, il demiurgo della nuova Roma. Non andrà così.

La prima stagione è ovviamente complicata. I giallorossi escono ai preliminari di Europa League e finiscono settimi in campionato. L’anno successivo si parte con Zeman in panchina. Sarà un’altra scelta sbagliata. Arrivano le prime grandi delusioni. Mauro Goicoechea che si butta in pallone da solo contro il Cagliari è solo l’antipasto del 26 maggio. Una data maledetta, una data che tutti ricorderanno nella Capitale. Perché la Lazio batte la Roma nella finale di Coppa Italia. Una macchia che la nuova proprietà non riuscirà mai a lavare via. La Roma diventa una squadra bipolare, capace di perdere 6-1 con il Barcellona, 7-1 contro il Bayern Monaco e in Coppa Italia contro una non irresistibile Fiorentina. Ma è anche il club che il 10 aprile 2018 batte 3-0 in casa il Barcellona, ribalta il 4-1 del Camp Nou e vola in semifinale di Champions League. Il punto più alto della gestione Pallotta.

Ma la Roma è soprattutto la squadra delle contraddizioni, il club che riesce ad arrivare per primo sui talenti i più interessanti in circolazione ma che non riesce a trattenerli. Pjanic, Benatia, Marquinhos, Lamela, Romagnoli, Alisson, Salah, Nainggolan, Manolas, Rüdiger, Paredes, Emerson Palmieri, vengono immolati sull’altare del bilancio. Perché negli ultimi anni i tifosi della Roma hanno imparato sulla loro pelle il significato della parola plusvalenza: comprare prima degli altri i grandi prospetti, farli crescere, poi rivenderli a cifre molto elevate. Significa potersi permettere una rosa al di sopra delle proprie possibilità, significa smontare e rimontare la squadra ogni anno. E non sempre può andare bene. Per un momento è proprio sul mercato che la Roma sembra riuscire a competere con le altre grandi del calcio italiano. Nel 2014 i giallorossi strappano Iturbe alla Juventus (che si rifarà con Dybala) provocando le dimissioni di Antonio Conte. Tre anni dopo acquista Patrick Schick, scartato dai bianconeri per un problema al cuore, bruciando i nerazzurri. Saranno due fallimenti colossali che peseranno per anni sulle casse del club.

Lo stadio è l’altro grande miraggio dell’era Pallotta. Un progetto che ha attraversato tre sindaci diversi, che ha conosciuto la beffa del vincolo dei beni culturali sulla tribunetta di Tor di Valle, e che resta chiuso sul fondo del cassetto ormai da 9 anni, quasi tremila giorni. Una situazione grottesca che Dan Friedkin dovrà sbrogliare in qualche modo. Agli occhi dei tifosi, però, la colpa più grande dell’ex presidente è stata quella di essersi sbarazzato della storia giallorossa. L’addio di Totti e di De Rossi è stato traumatico, condito da troppi veleni e polemiche. I tifosi si sono trovati improvvisamente provati dei loro punti di riferimento, dei loro rappresentati in campo. E il rapporto con il presidente si è logorato. “So quanto siano pazzi i tifosi romanisti, ma sono preparato: voi non sapete quanto sono pazzo io”, aveva detto Pallotta nel 2011.

Le sue gag erano diventate tormentoni: il tuffo in piscina con i vestiti addosso, i 90 euro regalati in diretta a Rudi Garcia dopo la vittoria sul Torino nel 2014 fanno sorridere tutti. Almeno fino a quando non iniziano i dissidi. Nell’aprile del 2015 alcuni tifosi espongono degli striscioni contro la madre di Ciro Esposito. La risposta di Pallotta è durissima: “Non è giusto per tutti i nostri tifosi essere infangati da pochi fucking idiots and assholes (fottuti idioti e stronzi, ndr) che frequentano la Curva Sud”. È l’inizio della fine. Eppure non tutto è stato un fallimento. Perché negli otto anni di gestione Pallotta la Roma ha chiuso tre volte terza e due volte seconda. Ma è diventata soprattutto un club dalla vocazione ancora più internazionale. Sono stati fatti massicci investimenti per rafforzare il brand, per sviluppare il merchandising, per aumentare la presenza del club in tutto il mondo. Sono arrivati sponsor (tecnici e non) internazionali, amichevoli estive all’estero con le grandi potenze del Vecchio Continente. L’esperienza di Friedkin dirà se si poteva fare di più.

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