Ogni anno improvvisamente circa 35mila mamme spariscono dal mercato del lavoro. Come se sparisse una cittadina intera. Nel 2019 sono state più di 37mila, ma nel 2020 si dovranno fare i conti con gli effetti del Covid-19. I dati contenuti nella relazione 2019 dell’Ispettorato nazionale del Lavoro sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri (il 73% del totale) e dei lavoratori padri non rappresenta una doccia fredda per la consigliera nazionale di Parità, Francesca Bagni Cipriani che, però, a ilfattoquotidiano.it si dice comunque preoccupata per “quanto potrà avvenire nei prossimi mesi, perché è chiaro che l’emergenza legata al Coronavirus ha evidenziato ancora di più quanto nel nostro Paese manchino infrastrutture e un sistema di sostegno alle lavoratrici che hanno figli”. Non solo: “Ci stiamo attivando per un monitoraggio mensile della situazione, perché immagino che il numero delle dimissioni potrà aumentare e, quando si rimuoveranno i divieti ai licenziamenti, ci troveremo davanti a nuovi problemi”.

I DATI DEL RAPPORTO INAIL – Nel corso del 2019, sono stati emessi 51.558 provvedimenti di convalida di dimissioni e risoluzioni consensuali, in numero di poco superiore (+ 4%) rispetto ai 49.451 del 2018. È confermata la prevalenza (oltre il 98% del totale) delle convalide relative a dimissioni, che sono 50.674, di cui oltre il 95% volontarie e più del 3% per giusta causa. Residuale è rimasta la categoria delle risoluzioni consensuali (circa il 2%). La maggior parte dei provvedimenti ha riguardato, ancora una volta, le lavoratrici madri: 37.611 (il 73% del totale), percentuale uguale a quella del 2018, ma in numeri assoluti c’è un aumento (oltre 1.600 in più). Anche l’età è emblematica: il 75% dei provvedimenti, per entrambi i sessi, riguarda le fasce di età che vanno dai 34 ai 44 anni e dai 29 ai 34 anni. “Si tratta di un dato inquietante – spiega Bagni Cipriani – perché parliamo di donne che sono al massimo delle loro potenzialità, che hanno studiato, ottenuto una laurea, seguito un percorso e noi buttiamo via la loro competenza. D’altro canto non c’è un sistema di accoglienza generale e le donne lo sanno, inutile girarci attorno, che tanto tocca tutto a loro”. Come per gli anni precedenti, le convalide hanno per la maggior parte (il 60% circa del totale) interessato lavoratrici e lavoratori con un solo figlio o in attesa del primo. Significativa si è comunque confermata anche la percentuale – oltre il 33% – di lavoratrici e lavoratori con due figli.

LE MOTIVAZIONI – Fra le motivazioni delle dimissioni e risoluzioni consensuali, infatti, la più ricorrente è rimasta la difficoltà di conciliare l’occupazione con le esigenze di cura dei figli, registrata in 20.730 casi (il 35% del totale). Questo può dipendere dall’assenza di parenti di supporto (nel 27% dei casi), dall’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato come asilo nido o baby sitter (nel 7%) o dal mancato accoglimento al nido (nel 2% dei casi). Altra motivazione (accade per il 18% dei provvedimenti) è rappresentata dalla difficoltà di conciliare il lavoro con la cura del bambino per ragioni legate all’azienda dove si presta servizio (quasi 11mila casi), soprattutto per le condizioni di lavoro, particolarmente gravose o non compatibili con la gestione dei figli, ma anche per cambiamenti della sede di lavoro e distanza tra questa e la casa, orari, modifiche delle mansioni svolte e mancata concessione del part time. Ancora in crescita è risultato il dato relativo alle dimissioni e risoluzioni consensuali per passaggio ad altra azienda (sono oltre 20mila, per un altro 35% rispetto al totale).

LA NON SCELTA – “Fino a tre o quattro anni fa – spiega la consigliera nazionale di Parità – le ragioni legate alle dimissioni erano legate principalmente al fatto che non ci fosse un numero adeguato di nidi, mentre oggi tra le prime motivazioni troviamo la mancanza di supporto nella cura dei figli da parte dei nonni (e parliamo di dati precedenti all’emergenza sanitaria, ndr) e il prezzo troppo alto delle rette degli stessi nidi”. Questo significa che i costi sono un problema maggiore rispetto alla disponibilità dei posti e si traduce nella perdita di libertà nel fare una scelta: “Si fanno i conti a casa e si arriva alla conclusione che tocca alla donna, che guadagna meno, rinunciare al lavoro, perché in termini economici conviene rispetto al pagamento di una retta salata. Una decisione legittima, ma non è più una scelta”. Quali sono gli strumenti adatti per dare un sostegno concreto? “In questo momento, ci sono una serie di provvedimenti in cantiere e molte risorse economiche – sottolinea Bagni Cipriani – solo che bisogna capire quale sarà la destinazione finale”.

I NODI DEL PART-TIME E DELLO SMART WORKING – Un altro dato significativo riguarda il part-time, che potrebbe rappresentare un buon compromesso. Eppure, rispetto all’anno precedente, è rimasta stabile la percentuale (21%) di accoglimento delle richieste di part-time o flessibilità presentate da lavoratrici e lavoratori interessati alle convalide: su 2.085 richieste ne sono state infatti accolte 436. “Si tratta di un tema importante che affrontiamo anche nel report annuale sull’attività delle consigliere in tutta Italia – spiega Bagni Cipriani – e che si sofferma sul problema delle discriminazioni. Quest’anno sono aumentate le segnalazioni di discrimazioni, superando le 3mila (l’84% riguardano donne), ma sono circa mille quelle prese in carico effettivamente dalle nostre consigliere, perché le lavoratrici non vanno avanti per paura di ritorsioni”. La maggior parte delle discriminazioni sono legate a maternità e difficoltà di conciliare lavoro e vita privata “ma è frequente anche che tra le ragioni vi sia una richiesta respinta di part-time. Che invece va concesso”. Il lockdown avrebbe potuto regalare una nuova opportunità: lo smart working. “In questa fase è necessario che il governo lavori a una progettazione – commenta la consigliera – perché lo smart working ha contraddetto l’idea iniziale e, imposto all’ultimo momento senza alcuna formazione, è stato solo una toppa. Difficilissimo da gestire per le mamme che hanno dovuto fare anche da maestre ai figli, in alcuni casi con risultati che immagino disastrosi. Penso, invece, a una rete che possa contare su un sistema di assistenza scolastico, ben diverso da una specie di parcheggio. Occorre lavorare da subito su questi fronti perché la sensazione è che ora inizieranno i guai”.

QUALI SOLUZIONI – E mentre, non a caso, la Cgil chiede un incontro all’esecutivo dopo l’ennesima “allarmante conferma della difficoltà di essere madri e lavoratrici” e la Cisl parla di situazioni “inaccettabili”, proprio la ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali, Nunzia Catalfo, è intervenuta commentando i numeri dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. “Per le madri-lavoratrici, i primi tre anni di vita di un bambino rappresentano il periodo in cui occorre un maggiore sostegno. Un primo passo avanti – ha ricordato – lo abbiamo già fatto con il Family Act nel quale, fra le altre cose, oltre all’assegno unico e al potenziamento dei congedi parentali è prevista una quota di riserva della dotazione del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese per l’avvio delle nuove imprese start up femminili e l’accompagnamento per i primi due anni”. L’esponente del governo ha parlato di un altro fenomeno. “È mia intenzione – ha annunciato – avviare una seria azione di contrastato al part-time involontario, che penalizza principalmente le donne e, come stabilito dal programma di Governo, introdurre – nel più breve tempo possibile e coinvolgendo il Parlamento – una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni”. Per la sottosegretaria Francesca Puglisi la soluzione va ricercata “nell’implementazione della rete dei servizi educativi per la prima infanzia, soprattutto nel mezzogiorno del Paese, che sono fonte di occupazione diretta ed indiretta femminile e leva indispensabile per la conciliazione dei tempi di vita di lavoro della coppia genitoriale”, ma anche in un “deciso intervento per la piena condivisione del lavoro di cura promuovendo un unico congedo per padri e madri retribuito all’80%, di cui il 20% non sia trasferibile all’altro genitore”.

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