Nuova bocciatura del Jobs Act da parte della Consulta, dopo il pronunciamento che nel 2018 ha dichiarato incostituzionale il criterio di indennizzo per il licenziamento ingiustificato. La nuova censura degli ermellini riguarda l’indennità prevista per i casi di licenziamento illegittimo per vizi formali: la Corte costituzionale ha stabilito che l’indennità non può essere ancorata solo all’anzianità di servizio. In particolare, è incostituzionale l’inciso dell’articolo 4 del Jobs Act che fissa “l’importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” in quanto il criterio è “rigido e automatico”, legato appunto al solo elemento degli anni di lavoro trascorsi in azienda.

L’articolo 4 del decreto legislativo approvato nel 2015 dal governo Renzi recita che “Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione (…) il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.

La Corte ha esaminato le questioni di costituzionalità sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma. La questione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Bari riguarda una donna di 40 anni, pregiudicata, licenziata dopo essere stata arrestata in flagranza nel settembre 2017 con sei chili di marijuana in auto. Il giudice le concesse subito gli arresti domiciliari con il permesso di continuare ad andare a lavorare come addetta alle cucine nella ditta Ladisa di Bari. L’azienda, però, alcune settimane dopo ne dispone il licenziamento per “grave violazione degli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede per aver posto in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro”. La donna impugnò attraverso i suoi legali il licenziamento davanti al Tribunale del Lavoro. La giudice ritenne le ragioni del datore di lavoro “sussistenti e sufficienti a legittimare il licenziamento”, evidenziando però una illegittimità dal punto di vista procedurale, perché “è stato del tutto omesso l’avviso, diretto alla lavoratrice, concernente la facoltà di rendere giustificazioni” a propria difesa.

La giudice, quindi, dichiarando comunque estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, aveva sospeso il giudizio sul risarcimento spettante alla lavoratrice, sollevando la questione di incostituzionalità sulla quantificazione della indennità (“importo pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio”). Per il Tribunale di Bari, cioè, “il diritto a essere licenziati solo all’esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato, non riceverebbe adeguata tutela da un meccanismo risarcitorio che consentisse di predeterminare in maniera fissa l’importo dell’indennità, sulla base del solo criterio dell’anzianità del dipendente”, in violazione dei principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza.

“Si tratta di una decisione importante che permetterà a migliaia di lavoratori di poter definire finalmente i propri procedimenti dinnanzi ai Tribunali”, è il commento degli avvocati baresi Gianluca Loconsole e Fabrizio Carbonara sulla pronuncia relativa al caso di una loro cliente licenziata tre anni fa dopo essere stata arrestata per droga. “Nella vicenda in questione vi era stata la violazione macroscopica delle più elementari regole del giusto processo oramai estese al procedimento disciplinare“, dicono i legali, spiegando che “si è proceduto al licenziamento di un lavoratore senza le necessarie garanzie procedimentali a presidio della difesa ed in violazione del principio di proporzione e alla regola del contraddittorio”. Gli avvocati dicono, quindi, di “apprendere con immensa soddisfazione” la decisione della Consulta, “anche se sarà importante leggere nel dettaglio la stessa motivazione – dicono – confidando nella indicazione da parte dei giudici costituzionali di qualche suggerimento per risolvere il tema sul piano della giustizia ordinaria o comunque un invito al legislatore a rivedere l’intera materia“.

“Esprimiamo soddisfazione per quanto deciso dalla Corte Costituzionale”, è il commento della segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti. “In attesa delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, che potrà chiarire la portata dell’illegittimità dell’art. 4 del decreto 23/2015, viene confermato – prosegue la dirigente sindacale – quanto da noi sempre sostenuto sull’inadeguatezza dell’impianto normativo di tale decreto, che ha sostanzialmente abrogato la reintegrazione nel posto di lavoro sostituendola con una inaccettabile monetizzazione dei danni subiti dai lavoratori in caso di licenziamento illegittimo”.

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