La tempesta in un bicchier d’acqua scatenata dal premier proponendo gli Stati Generali – con il seguito di increspature sulla superficie del mondo politico italiano create dal soffio di molteplici vanità – è solo l’ennesima riprova di quanto tale umanità sia inadeguata; incapace di trarre il capo fuori dalle abituali meschinerie, nonostante che i tempi in cui viviamo richiederebbero di volare alto.

Ma cosa turba in questa iniziativa? Non di certo l’evocazione di precedenti storici ad alto tasso simbolico (gli Stati Generali nascono come organo di rappresentanza dei tre ceti sociali nello Stato francese ante Rivoluzione del 1789: l’assemblea d’origine feudale che affiancava il potere monarchico in momenti di grave emergenza) e neppure l’uso svilente del termine fatto in ricorrenti assise confindustriali, o analoghe kermesse in cui si susseguiva la parata di notabili che non avevano niente da dire ma che lo volevano dire lo stesso.

Un discredito dello strumento che doveva suggerire l’adozione di un lessico meno usurato. Fermo restando che – semantica a parte – il significato dell’appuntamento è abbastanza chiaro: dare vita a un momento di fertilizzazione delle intelligenze, in cui auspicabilmente si realizzi la felice chimica che accende l’intuizione decisiva. Operazione che si basa sulla chiamata a raccolta di competenze pregiate e menti vivaci, in una generosa (creativa) messa in relazione. Quanto nei mille giorni del presidente Kennedy fu chiamato Camelot; e il cui lascito intellettuale divenne il progetto della Great Society di Lyndon Johnson.

Dunque, operazione che sottende un doppio retro-pensiero: da un lato la convinzione che l’intelligenza collettiva nazionale abbisogni di una scossa, che la smuova dal torpore in cui si è adagiata ormai da troppo tempo; dall’altro la necessità di inserire il ricambio di energie nuove in un dibattito pubblico tragicamente povero, la cui elaborazione non va oltre la battuta da talk show, il sincopato del tweet.

Un livello di proposta che non supera la soglia dello slogan. Sicché sono patetiche le richieste di confronto programmatico con il governo in bocca a Giorgia Meloni e Matteo Salvini; stante la loro accertata vacuità in materia di contenuti che non oltrepassino le sparate da campagna elettorale.

Al tempo stesso, conferma la condizione mentale da vuoto pneumatico del ceto politico verificare come, nell’idea di attivare un momento di riflessione creativa, i Nicola Zingaretti e gli Andrea Orlando, questi funzionari di partito ingrigiti nei corridoi del vecchio Pci, scorgano solo un’occasione di visibilità da cui non essere esclusi; giovani apprendisti senz’arte né parte alla Luigi Di Maio ci intuiscono minacce al proprio orticello di potere. La comune percezione che si creerebbe un habitat mentale da cui sarebbero immediatamente emarginati.

Viceversa la ricerca di interlocuzioni alte per un salto di qualità politico che (non so quanto consciamente) spinge Giuseppe Conte ad adottare modelli inusuali nella nostra politica; ma che seppero trasformare le rispettive stagioni in epopea. Sempre in quanto capaci di produrre soluzioni innovative per l’uscita da crisi drammatiche. Come non meno drammatica è quella odierna.

Nel 1933, inaugurando il New Deal, il presidente Roosevelt attingeva al patrimonio intellettuale accumulato da grandi pensatori come il filosofo John Dewey o lo studioso di organizzazione Philip Selznick, su cui si stagliava la figura colossale della più grande mente del Novecento: John Maynard Keynes.

Negli anni Ottanta del secolo scorso, promuovendo il Piano Strategico di Barcellona, l’alcalde Pasqual Maragall poteva contare sui contributi d’idee di un architetto del calibro di Oriol Bohigas, di sociologi di territorio come Manuel Castells. Connubi di intelligenze che producevano straordinarie soluzioni: l’investimento anticiclico dello Stato come risposta alle ricorrenti crisi capitalistiche; lo spazio urbano al servizio di un progetto di rifondazione civile e democratica.

Sarebbe bello se, nell’Italia piegata dalla pandemia, il prossimo appuntamento di creatività invertisse la tendenza all’atrofia intellettuale. Non lascia ben sperare l’esito della prima mossa di stimolo alla discussione: il rapporto redatto dal team di Vittorio Colao; a quanto pare, sterminato menu di variegati piattini senza un’idea unificante.

Neppure troppo aggiornato dal punto di vista linguistico: il tormentone della “resilienza” è di qualche anno fa. Ora la parola manageriale di moda è “antifragile”.

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