di Riccardo Cristiano*

II presidente Donald Trump usa moltissimo Twitter, la sua comunicazione diretta con gli americani è nota. Il 2 giugno di quest’anno ha twittato: “Queste non sono proteste pacifiche. Questi sono atti di terrorismo interno.” La distinzione tra proteste pacifiche e azioni di frange violente non è citata.

E’ il giorno nel quale, accompagnato dalla First Lady, si è recato a rendere omaggio al santuario di Giovanni Paolo II a Washington, a poche ore dalla precedente visita alla chiesa episcopaliana di Saint John, dove si è fatto riprendere mentre alzava con fermezza la Bibbia. Trump intendeva inserire la fede al fianco della sua idea di “legge ed ordine.”

Dall’altra parte, secondo questo cinguettio presidenziale, ci sono i terroristi. I toni forse verranno modificati, forse si tornerà a parlare di teppa, di estremisti di sinistra, ma il vocabolo “terrorismo” ha fatto il suo ingresso nella disputa americana. I due vescovi competenti si sono detti “sconcertati” dalle visite presidenziali. Hanno reso un servizio al loro Paese, ma anche all’idea ecclesiale.

Per coglierlo vale la pena partire dalle propagande: quella cinese ha avuto una carta, dicendo nei fatti “voi parlate di Hong Kong?”. Non ha detto che pochi giorni prima il segretario per la sicurezza di Hong Kong, John Lee, aveva commentato l’approvazione dell’emendamento alla legge fondamentale che regola il sistema di Hong Kong da parte dell’Assemblea Nazionale del Popolo di Pechino, affermando che “il terrorismo sta crescendo nella città, e attività che danneggiano la sicurezza nazionale dilagano.”

Anche qui la distinzione tra manifestazioni e frange non c’è. I leader di Pechino, fedeli all’ateismo o all’imperatore, che oggi si chiama Segretario Generale ma quando si chiamava imperatore era “il figlio del cielo”, non si recano in templi per legittimare la loro idea di “legge e ordine”. Non sono loro che possono parlare, ma in tema di diritti l’America non è la Cina… E si sono fatte presenti anche le propagande di russi, iraniani, turchi e altri.

Nella incomparabilità dei sistemi emerge un fatto: dai giorni del trauma globale dell’11 settembre la guerra al terrorismo si è universalizzata e ha preso anche indirizzi opposti a quello degli inventori. Il nuovo corso probabilmente è cominciato in Siria nel 2011, quando la maggioranza di un popolo intero fu definita terrorista dal regime che contestava. Quel regime, ufficialmente inviso a Washington, faceva suo lo slogan di Bush, “guerra al terrorismo”. Da allora l’uso del termine terrorismo rimuove sempre le altre forme di violenza sistematica.

Questo porta alla crisi delle politiche di riconciliazione spesso invocate dalle Chiese, e il marcarsi di nazionalismi che rifiutano la riconciliazione favorisce i nuovi nichilismi. Il ruolo delle Chiese locali diviene cruciale. Chiese nazionaliste? Tutti i grandi contendenti seguono corsi nazionalisti, ostili alla riconciliazione. I possibili provocatori fanno parte del modo più detestabile di intendere la “battaglia politica” da parte di chi rifiuti di promuovere l’idea di riconciliazione. Ma quando le ferite si protraggono così a lungo emerge la sfiducia, la rinuncia, e questo può portare ad un nuovo nichilismo.

Dall’America si accavallano i racconti di giovani senza speranza per le conseguenze del virus e del terribile riemergere di quella sociale: questo può far scendere la rabbia per l’oggi nella vecchia sfiducia: dove trovare gli anticorpi, sperare ancora di cambiare le cose? La stessa domanda in altri contesti deriva dall’idea di definitivo isolamento globale. Se la Chiesa americana scivolasse su un nazionalismo modello russo sarebbe un cambiamento enorme.

Gli anticorpi per debellare il virus del nichilismo li produce solo la ricerca della riconciliazione, un’esigenza che tanti americani dimostrano, dentro e fuori le istituzioni. Soprattutto per questo i casi citati restano incomparabili. Ma è proprio per questo motivo che ha molto preoccupato l’idea, insita nella visita di Trump ai due luoghi di culto, di rendere in America il cristianesimo un fattore di contrapposizione e non di riconciliazione.

La riconciliazione è un’esigenza globale e la religione con Martin Luther King si è dimostrata un propellente di valenza globale della riconciliazione, come dimostra il celebre discorso “I have a dream”. Oggi Trump sembra volerle affidare la tutela del suo approccio, che non considera la riconciliazione. Indicando un unico padre per fratelli tra di loro diversi, la religione dialogante può aiutare a trovare la riconciliazione nel valore del “vivere insieme”. Così interpretata, o usata, perde invece questo valore di luogo del vivere insieme, indebolendo il Paese: il nichilismo potrebbe giovarsene.

I due luoghi di culto, di diverse comunità cristiane, visitati da Trump, parlano di un cristianesimo-contro. Ma i rispettivi vescovi sono stati veloci a dirsi sconcertati da quelle visite. E’ il filo al quale si lega l’immagine di quei poliziotti americani bianchi, in divisa, tutti in ginocchio in segno di solidarietà con George Floyd. Due vescovi e un’immagine, un unguento americano sulle ferite americane che ha valore anche oltre i confini nazionali.

* Vaticanista di RESET, rivista per il dialogo

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