“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. È da queste storiche parole di Papa Francesco che parte l’interessante e inedita ricerca di Luciano Moia, da oltre vent’anni caporedattore del mensile di Avvenire dedicato alla famiglia. Il giornalista ha dato alle stampe il libro Chiesa e omosessualità (San Paolo), un’inchiesta alla luce del magistero di Bergoglio che, proprio partendo dalle parole del Pontefice sui gay, analizza il cammino ecclesiale di questi ultimi anni su un tema da sempre considerato tabù.

“Dopo Amoris laetitia, scrive Moia – la Chiesa in Italia si sta finalmente interrogando in modo costruttivo su come impostare una pastorale specifica perché anche le persone con orientamento omosessuale possano “avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita”. Tante e spinose le questioni aperte. Nessuno, o “quasi”, pone in dubbio il dovere di accogliere e di discernere. Ma quando si parla di integrare, che è la terza parola chiave dell’esortazione apostolica post sinodale, appunto dopo accoglienza e discernimento, come dobbiamo modulare la nostra disponibilità? Fino a che punto cioè spingere l’accoglienza? Accogliere non comporta il rischio di approvare anche implicitamente uno stile di vita?”.

Domande alle quali risponde il cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, una delle menti più illuminate della Chiesa italiana, che firma la prefazione del volume. “Quando nelle nostre comunità – sottolinea il porporato – cominceremo davvero a guardare le persone come le guarda Dio, allora anche le persone omosessuali, e tutti gli altri, cominceranno a sentirsi, naturalmente, parte della comunità ecclesiale, in cammino”.

Zuppi è convinto che per i gay “non c’è bisogno di una pastorale specifica. C’è bisogno di uno specifico sguardo sulle persone; su ogni persona prima delle categorie. Dobbiamo fare attenzione – sostiene il porporato – a non definire le persone a partire da una loro caratteristica, per quanto profondamente legata alla loro identità, ma dobbiamo guardare la persona in quanto tale; e come cristiani la dobbiamo guardare come figlia di Dio, nel pieno diritto, cioè, di ricevere, sentire, e vivere l’amore di Dio come ciascun altro figlio di Dio.

La pastorale deve fare questo e solo questo. Unica, unitaria deve essere la pastorale della comunità cristiana; essa deve aiutare le persone a vivere da figli di Dio in un’unica famiglia dove ciascuno è simile ma diverso; dove la diversità di ognuno è un dono per la ricchezza della comunità, dove si vive la vera vocazione della nostra vita che è essere suoi, santi”.

Il cardinale non ha dubbi: “Quali sono i rischi di un’integrazione di tutti, persone omosessuali comprese, nella pastorale ordinaria? Sono forse maggiori dei rischi che una famiglia corre nel cercare di integrare creativamente le particolari diversità (a volte molto “particolari”) di ciascun figlio? La vita della comunità e della famiglia è dinamica, spesso conflittuale; ma come si può esercitare la carità, l’amore di Dio, se non viene messo alla prova anche dalla conflittualità?”.

Al di là delle costanti e chiare aperture di Francesco, nei suoi primi sette anni di pontificato, ogni volta che la Chiesa cattolica, in particolare durante i Sinodi dei vescovi, si è trovata a riflettere sul tema dei gay le barriere sono sempre state insuperabili. A iniziare dal 2014 quando un’ampia rappresentanza di presuli di tutto il mondo fu convocata a Roma da Bergoglio per riflettere sulla famiglia. Durante il dibattito ci furono delle proposte di grande apertura sulle coppie omosessuali. Ma alla fine l‘assemblea le bocciò in modo impietoso

Nel 2015, nel secondo e ultimo Sinodo dei vescovi sulla famiglia, le aperture vennero riproposte. Ma anche quella volta la bocciatura fu netta. Nel suo libro, Moia ricorda che “sono stati tanti gli interventi, anche di segno apparentemente opposto, che hanno fatto gridare ora a una presunta “apertura indiscriminata” da parte del Papa, ora a un altrettanto presunto ritorno al tempo delle chiusure e delle demonizzazioni sulla base del genere”.

Per il giornalista “in realtà c’è una coerenza profonda in queste sottolineature di Francesco, anche in quelle più estemporanee, spesso frutto di risposte offerte a braccio a domande postegli durante conferenze stampa, incontri personali o in altre occasioni. Da una parte si evidenzia il radicamento a quel Vangelo della misericordia a cui il Papa ha fatto più volte riferimento, a quel “primato della carità come risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio”. Anche nei confronti delle persone omosessuali Francesco non dimentica che “la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio””.

Moia ricorda, infine, che, “nelle occasioni in cui ha manifestato il suo pensiero sul tema gay, il Papa ha accennato spesso alle parole del catechismo, pur in modo informale, lasciando intendere che al centro ci devono sempre essere le persone, il loro vissuto, le loro fragilità, le loro speranze, e non l’applicazione di leggi morali “come fossero pietre che si scagliano contro la vita delle persone””. Parole che la Chiesa, però, non è ancora pronta ad ascoltare.

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