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di Furio Durando

Avvolgere opere d’arte, edifici, infrastrutture con chilometri quadrati di stoffa. Impacchettarli, stringerli con legami robustissimi. Tagliare con prepotente leggerezza un paesaggio, schermarne le prospettive consuete con un sipario (mutando o negando lo spettacolo); o come fosse un sudario (evocando una pena, un abbandono, un addio). Connettere terre facendo i conti con l’acqua – senza la superbia d’un ponte sospeso e penetrante i suoi abissi, dunque senza offesa che necessitasse d’un pontefice. Questo tipo d’azione artistica ha reso famoso Christo Javacheff.

Una poetica difficile, e tuttavia paradossale solo per chi – fuori dal mondo di chi sull’arte s’interroga e trova risposte – è abituato a immagini che certificano il noto, e non ama scoprire il nuovo e meditarvi, ma s’accontenta di riconoscere l’ovvio. Non è forse per questo che a molti tutto ciò che dà il senso e resta di Venezia è un selfie col Ponte dei Sospiri in secondo piano, per attestare all’effimerità permanentizzabile digitale la propria presenza e la sussistenza del luogo: un luogo di cui hanno appreso attraverso un’icona e che riconsegnano al mondo iconico con indelebile, personale “tag”.

Non poter vedere. Ed essere costretti a guardare e vedere ciò che nega l’oggetto noto. Dunque a immaginare. Ma immaginare significa entrare nella magia che forma ciò che è, che “fa” visibile l’invisibile, che è cifra dell’essenza. Numerosi e sovrapponibili in ordine intercambiabile sono i piani di senso della poetica di Christo.

1) Alla bulimia del guardare (cui tien dietro spesso un’anestetizzazione del vedere, inteso come “vista” e come “visione”) l’artista contrappone inviti al digiuno, a meditare sulla sottrazione e sulle assenze che il destino di mortali comporta per ognuno. Nella levità del tragico javacheffiano, fortemente contrastiva con l’esibita pesantezza materica e dimensionale dei suoi interventi, l’ammonimento privo di sfumature morali o paternalistiche è: “Ricordati che tutta la bellezza alla quale sei abituato, al punto di non vederla più neppure quando puoi guardarla ancora, scordando che è la sola via all’infinito, all’eterno, all’essenza, ti sfuggirà per sempre, un giorno.”

2) Il viluppo colossale che fa scomparire ai sensi “cose” gigantesche e visivamente scontate ha però a che fare anche con l’incubo umano della corrosione del tempo e della precarietà del destino, con la necessità di preservare la bellezza, impacchettandola come le masserizie frettolosamente poste sopra un carro di profughi da uno scenario di guerra – e l’orrore è che il carro è il mondo stesso, e sul carro è la guerra.

3) I paesaggi “tagliati” e schermati impongono la scelta: restare muti e sgomenti a contemplare barriere che ben s’attagliano a rappresentare simbolicamente quelle costruite dalla mente e oltre le quali gli occhi non sanno più vedere né immaginare? Oppure penetrare i muri, scostare i sipari, violare palcoscenici e finzioni, liberare l’infinito facendolo risorgere dal sudario impostogli, barriera-metafora d’oscurità, negazione del visibile, negazione d’ulteriore prospettiva?

Una preziosa eredità, quella di Christo, perché a distanza di quasi un secolo dai versi d’Eugenio Montale, è tuttora molto più facile incontrare “chi crede / che la realtà sia quella che si vede”. Ed è tempo di sottrarsi agli scorni.

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